La sanità siciliana distrutta da leggi nazionali e piani regionali

La sanità siciliana distrutta da leggi nazionali e piani regionali
Il sistema sanitario siciliano negli ultimi dieci anni ha subito una trasformazione graduale – a nostro parere decisamente peggiorativa – dovuta all’applicazione di riforme nazionali, concepite e progettate lontano dai territori e spesso contro di essi.
La conformazione geografica della Sicilia, con il suo portato di diversità e di specificità, si è scontrata su più fronti con i progetti di modernizzazione del centralismo statale ed europeo. Il tessuto sociale ed economico ha risentito più che altrove di una spending review concepita esclusivamente per accentrare i servizi presso le grandi aree urbane, consentendo un taglio deciso e costante alla spesa pubblica e rendendo più pervasivo il controllo statale sulle politiche per lo sviluppo locale.

 

La Riforma Balduzzi

La riforma della sanità introdotta con il governo Monti dall’allora ministro Balduzzi la legge n.189/2012 – non è mai stata messa in discussione dai governi successivi, i quali anzi hanno rafforzato lo spirito apparentemente razionale del suo dettato normativo che in realtà si è trasformato in un piano di ritiro dei presidi ospedalieri dai territori. Questa legge è nota per aver predisposto un quadro per la “deospedalizzazione” delle cure primarie, in un contesto di tagli lineari operati su più fronti, che nel complesso – e unitamente alla legge n.135/2012, cosiddetta “Salva Italia” – ha comportato un taglio lineare per il SSN di 4,7 miliardi e la previsione di una riduzione di 20 mila posti letto tra pubblico e privato. I successivi interventi governativi, cosiddetti “patti per la salute” e il decreto ministeriale n.70/2015, recepito in Sicilia con il DA n. 1181/2015 e con il D.A. n. 62/2017 e in fine con il D.A. 22/2019, hanno prodotto la razionalizzazione auspicata dal Governo Monti e, contrariamente ai proclami dell’assessore Razza, un peggioramento dei servizi per le zone montane, le isole minori e le aree a rischio, oltre a una schizofrenica modulazione dei livelli assistenziali negli ospedali maggiori.

 

 

Accentramento e declassamento

Nella divisione tra DEA di secondo livello, DEA di primo livello, presidi di base, pronto soccorso per le zone disagiate, pronto soccorso per aree ad alto rischio ambientale, spicca una vocazione accentratrice che pone, ad esempio, ben tre DEA di secondo livello (su sette) all’interno della città di Catania, un declassamento di strutture di riferimento per bacini di utenza tra 60 e 100 mila abitanti come quelli di Barcellona, Patti e Castelvetrano (per citarne i più importanti), la parziale chiusura dei presidi sanitari delle comunità montante come quello di Mistretta, la precarizzazione dei presidi per le isole minori come nel caso dell’ospedale di Lipari o di Pantelleria, in cui non sono più garantiti molti servizi di base, nemmeno un punto nascita efficiente.

La legge nazionale, a partire già dal 2011, prevede che vengano dismessi i punti nascita con meno di 500 parti annui, criterio al quale si può derogare con interventi specifici nell’ambito delle cosiddette “zone disagiate”.

 

 

Pantelleria Vuole Nascere

La Regione Siciliana fino a questo momento non è stata in grado di garantire una deroga strutturale per risolvere la questione, tanto che il comitato Pantelleria Vuole Nascere continua oggi le sue battaglie, ricordando a tutti noi quanto i criteri numerici non abbiano nulla a che fare né con il diritto dei cittadini ad avere un servizio essenziale, né con la libertà di vivere il proprio territorio con la determinazione specifica che da esso promana.

Sotto il profilo materiale, il servizio di nascita programmata, l’assistenza oncologica, il servizio di diagnosi di gastroscopia e colonscopia non risultano essere sicuri e realmente disponibili, perché incerti e intempestivi possono risultare i collegamenti con Trapani e Palermo, dove si è obbligati a recarsi.

«Pantelleria vuole nascere», infatti, può essere letto come il motto più interessante di questi anni nell’ambito dell’autodeterminazione dei territori, poiché segnala e ribadisce una diversa visione della vita in cui l’abusata parola resilienza trova la sua sostanza nella pratica di una comunità che vuole continuare a nascere e rinascere.

 

 

La de-territorializzazione della sanità

Sulla questione dei punti nascita un altro caso ancora aperto riguarda l’ospedale di Sant’Agata di Militello che, dopo la dismissione del reparto presso la struttura di Mistretta, dovrebbe accogliere numeri maggiori, eppure ad oggi risulta chiuso, a causa dell’effetto del Decreto Balduzzi e della normativa successiva. I cittadini dell’area nebroidea rimangono in attesa che qualcuno alla Regione si faccia sentire per ottenere dal governo nazionale una deroga necessaria; visto che, ad esempio, da Mistretta al primo punto nascita utile (Patti) bisogna percorrere 91 km.

Non va meglio all’ospedale di Lipari, dove si attendono ancora le assunzioni di nuovo personale promesso dalla Regione (così come altrove), mentre viene depotenziata l’assistenza sanitaria con il trasferimento di uno degli unici due pediatri di base dell’isola e proprio in un momento nel quale l’approvvigionamento della farmacia del presidio funziona a intermittenza.

Presso l’Ospedale di Patti si denuncia il declassamento a Presidio di base – nonostante il nosocomio sia di valore pari a quello di altri DEA e in più baricentrico per i paesi della costa tirrenica- oltreché, più nello specifico, il depotenziamento, operato con scelte incomprensibili, del reparto di ortopedia che solo a inizio 2020 era stato dichiarato “unità complessa”, ma al quale successivamente è stata rimodulata la reperibilità notturna dei medici, chiamati piuttosto ad operare sugli ospedali di Milazzo o di Sant’Agata di Militello. Ciò ha reso l’unità pattese un servizio quasi esclusivamente ambulatoriale.

I problemi di organizzazione delle piante organiche degli ospedali, le mancate assunzioni e i frequenti spostamenti di medici da un ospedale all’altro non sono il solo problema che attanaglia la nostra sanità.

 

 

La Regione che fa?

La Regione applica quanto gli viene chiesto e dissimula una autorevolezza e un’autonomia che non ha – perché ormai subalterna culturalmente – barcamenandosi tra piccoli aggiustamenti e contentini. Così le proteste per mancati adempimenti e adeguamenti delle strutture, così come per la riapertura alla normale fruizione dei reparti dopo l’emergenza Covid-19, sono in atto in molti comuni, tra cui Paternò e Partinico, dove si teme che la trasformazione in Covid Hospital sia un passo ulteriore verso la dequalificazione del presidio. L’emergenza sanitaria in corso ha invece temporaneamente scongiurato la chiusura dell’ospedale di Ribera, dove, nell’ambito della riorganizzazione ospedaliera, sarebbe dovuto rimanere soltanto il Pte. Ma, anche qui, per il post-Covid l’incertezza rimane enorme.

Spiace che l’Assessore Razza, così come il suo predecessore Gucciardi, non siano stati in grado di difendere le necessità, i diritti e la cultura dei siciliani. Viviamo un quadro di confusione e insoddisfazione diffusa proprio perché non esiste una strategia complessa e autonoma né una contrapposizione a direttive statali che non possono essere applicate alla nostra terra. La riduzione della spesa corrente, seppur contenga la possibilità di correggere anche le storture e gli abusi del sistema, è riferibile ideologicamente al progetto di precarizzazione dei servizi pubblici e del welfare che vuole plasmare un conteso in cui i cittadini siano sempre di più gli unici artefici dei propri successi e delle proprie disgrazie, in cui cioè la società e il contesto economico non sono responsabili verso i singoli. Così facendo la sanità pubblica potrà ridursi alla sola assistenza per le emergenze o ai pazienti gravi e più deboli, aprendo la strada a una più sostenuta privatizzazione per tutti i servizi ordinari. Peraltro una visione che sottende a tutto questo è l’abbandono dell’entroterra o delle isole minori (da lasciare esclusivamente ai turisti) e l’inurbamento, competitivo e compresso, della popolazione.

L’esperienza del Covid-19 costituisce tuttavia uno strano precedente, ipoteticamente un inciampo nella storia delle liberalizzazioni, perché per la prima volta dopo dieci anni si torna a investire sulla sanità. Il punto, allora, è capire su che tipo di sanità, su che tipo di società si voglia realmente investire. Questo è un argomento spinoso sul quale tenere alta l’attenzione per impedire che, talvolta persino a causa del Covid o di altre emergenze, vengano espropriati i territori dei propri diritti. D’altronde è il motivo principale dell’economia di questi anni: gestione emergenziale dei servizi per una società con meno diritti.

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