14 Dicembre 1944. Non si parte!

14 Dicembre 1944. Non si parte!

Gli anni tra il 1943 e il 1946 furono cruciali nello sviluppo della lotta per la libertà e l’indipendenza della Sicilia. La guerra aveva lasciato devastazione e macerie, il fascismo entrava nelle fogne della storia, la crisi economica imperversava, l’indebolimento dell’integrità territoriale minacciava la compattezza della nazione; su queste basi crebbe in Sicilia un movimento di protesta, che potè contare su migliaia di militanti attivi e determinati.

In particolare, tra la fine del ’44 e gli inizi del ’45, si manifestò un forte movimento antimilitarista e anti-italiano, conosciuto come movimento “Non si parte”. Il movimento coinvolse decine di migliaia di persone, che insorsero in ogni città e in ogni paese, nelle campagne, nelle università e nelle piazze siciliane. La scintilla che diede il via al movimento “Non si parte” fu una circolare (23 settembre 1944) del Ministro della Guerra, il conte milanese Alessandro Casati, che richiamava alle armi tutti i nati tra il 1914 e il 1924. Il governo intendeva in questo modo ricostruire l’esercito regio, ormai decimato dalla guerra e stanco di combattere, con l’apporto di giovani contadini, operai e studenti universitari chiamati a mettere a repentaglio la propria vita per una nazione con la quale, nonostante la caduta del fascismo, non riuscivano a identificarsi. Molto più che altrove, in Sicilia la nuova e inattesa chiamata alle armi suscitò un fortissimo malcontento dando vita a un diffuso moto di protesta popolare.

In Sicilia, dove ancora fumavano i palazzi crollati sotto i colpi delle bombe americane, dove il necessario per sopravvivere era diventato un lusso per pochi, dove il cibo era razionato, gli ordini del ministro Casati vennero ignorati e il numero dei renitenti alla leva crebbe enormemente. Al grido di «…nun si parti ma darreri nun si torna…» le cartoline precetto vennero bruciate in piazza, le prefetture furono assaltate, gli edifici pubblici e le stanze del potere politico devastate e date alle fiamme. Tra i capi di questa rivolta si trovavano numerosi indipendentisti che non accettavano di sottomettersi allo Stato colonizzatore. Tra costoro si distinse Calogero Petrolino, le cui parole pronunciate durante un comizio nella piazza principale di Naro riuscirono ad infiammare gli ascoltatori, che non esitarono ad insorgere prendendo d’assalto il carcere e liberando otto indipendentisti che vi erano detenuti.

Sebbene fosse durata solo lo spazio di alcune settimane, la rivolta del “Non si parte” si diffuse a macchia d’olio, investendo ogni angolo dell’isola. Accanto alle città di Messina, Palermo, Agrigento e Catania, si sollevarono Mazzarino, Termini Imerese, Scordia, Nicosia, Sciacca, Alcamo, Delia, Marsala, Canicattì, Niscemi, Barrafranca, Erice, Gela, Piazza Armerina, San Cataldo, Pietraperzia, Serradifalco, Paceco, Vizzini, Solarino, Scicli, Noto, Giarratana, Sant’Agata di Militello, Patti, Capo d’Orlando, Modica, Vittoria, Comiso, Chiaramonte Gulfi, Mussomeli, Villalba, Calascibetta, Palazzolo Acreide, Aidone. I manifestanti di Piana degli Albanesi riuscirono a impossessarsi del municipio e diedero vita ad una Repubblica Popolare Indipendente. Lo stesso avvenne a Comiso, dove diverse centinaia di persone dopo aver messo i carabinieri fuori gioco proclamarono la Repubblica di Comiso, alla cui testa vennero chiamati i capi della rivolta.

A Catania, il 14 dicembre nel corso di una affollata manifestazione che univa reduci di guerra, renitenti alla leva e studenti universitari, i militari spararono su un giovane sarto, Antonio Spampinato, uccidendolo. I catanesi reagirono duramente bruciando il municipio ed attaccando i militari. La maggior parte degli arrestati erano militanti separatisti. Alcuni giorni dopo, due giovani dimostranti vennero uccisi a Siracusa. Uno a Licata. Cinque a Naro, tra cui l’indipendentista Petrolino. Gli arresti si contarono a migliaia. I partiti nazionali, dalla DC al PCI, vigliaccamente accusarono i rivoltosi di fascismo e antipatriottismo; la realtà era ben diversa, come dimostra il motto antifascista «…darreri nun si torna» gridato dai manifestanti e le tante scritte analoghe comparse sui muri delle città.

La dura repressione del movimento “Non si parte” è soltanto un episodio della guerra che l’Italia aveva dichiarato al movimento indipendentista, che proprio in quegli anni divampava in tutta l’isola con un vigore mai visto prima. Quella guerra repressiva era stata inaugurata dalla Strage del Pane di Palermo del 14 ottobre 1944, in cui morirono 24 persone e 158 rimasero feriti, e si concluse con la Strage di Randazzo del 17 giugno 1945, dove rimasero uccisi due combattenti indipendentisti e il comandante dell’EVIS Antonio Canepa. Decine di morti per fermare il movimento “Non si parte” e per cercare di arrestare il cammino dell’indipendentismo siciliano. Una repressione inutile, però, se si pensa che non solo l’indipendentismo non si è mai fermato ma che il grido “Non si parte” torna oggi a risuonare tra tutti quei giovani siciliani che rifiutano di emigrare per mettersi al servizio dei propri oppressori.

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