Appunti sulle mobilitazioni per la Palestina

Appunti sulle mobilitazioni per la Palestina

(Foto di Marta Passalacqua)

La parabola del movimento di solidarietà al popolo Palestinese ha spiazzato tutte e tutti. Una partecipazione con una tale diffusione territoriale non si vedeva dagli anni Settanta. Di colpo, le timidezze hanno lasciato il posto alla determinazione e le paure indotte dall’applicazione delle nuove norme del Decreto Sicurezza sono state cancellate, forti della diffusione e dell’imponenza delle manifestazioni. Di colpo, siamo cambiati. E il merito è della lotta, del sacrificio e della resistenza dei palestinesi.

“Gaza liberaci!”, diceva uno dei tanti striscioni di una delle tante manifestazioni cui abbiamo partecipato. E Gaza ci ha liberati. Di colpo, è accaduto che l’unità che non era stata trovata nei mille conflitti che avevano attraversato gli ultimi decenni si è formata intorno all’indignazione per il genocidio, intorno a quanto c’è di più comune: la vita, i corpi, il loro insediarsi in un luogo.

Gaza è diventato il nome comune di ogni ingiustizia

Possiamo dire che questo movimento ha spiazzato anche le forze politiche. Dagli strafalcioni dei ministri al goffo ripiegare dei partiti di opposizione, per la prima volta dopo due anni dall’inizio dell’acutizzazione dell’occupazione israeliana e della pulizia etnica nei territori palestinesi, qualcosa si è inceppato nei piani di governamentalità delle “democrazie” europee. Ma la mobilitazione ha travolto ogni soggettività, ha messo a nudo la crisi verticale della rappresentanza. Hanno resistito solo le soggettività capaci di riconoscere questa crisi e di mettere a disposizione le proprie forze per il dispiegarsi del movimento. Tra queste vi è stato sicuramente il sindacalismo di base e solo in seconda battuta la CGIL, costretta a mobilitarsi dalla pressione politica di un’onda di rabbia crescente e dall’impeto imprevisto che la suggestione dello sciopero stava raccogliendo. Lo stesso è valso per le reti militanti. Con un nuovo coraggio, con un nuovo entusiasmo, abbiamo contribuito a fare pressioni. Sì, abbiamo contribuito poiché i governi occidentali erano e sono terrorizzati da questa enorme quantità di persone per strada, da questa disponibilità al conflitto, dalla determinazione dei lavoratori e degli studenti. Sono terrorizzati dal fatto che questa enorme potenzialità possa diventare conflitto dispiegato e indirizzarsi anche su altri temi. Gaza ha generato tutto questo. 

Dai portuali alla Flotilla

In Italia la mobilitazione è esplosa intorno alle vicende della Global Sumud Flotilla. La Flotilla è diventata la leva per incidere sulle condizioni materiali degli abitanti di Gaza, per incidere negli equilibri politici tra Israele e l’Occidente, facendo emergere contraddizioni che potevamo, fino a quel momento, solo immaginare. L’obiettivo era rompere il blocco navale (attivo dal 2009) e portare aiuti. Difendere la Flotilla ha significato per tutte e tutti difendere l’attacco contro Israele mosso dall’occidente solidale con la Palestina. I portuali di Genova l’hanno capito e hanno avuto il coraggio di scommettere su questo. Il sindacalismo di base è riuscito a ridare senso allo sciopero, ha dato corpo alla solidarietà che, spogliatasi dalle vesti di mera compartecipazione emotiva e morale, ha riscoperto la sua vera natura di esercizio di forza collettiva che mira a colpire un nemico comune

Assemblee territoriali come embrione di nuove istituzioni popolari

La nascita e il rafforzamento nei mesi scorsi di assemblee e reti sociali della protesta, embrioni di nuove istituzioni popolari, hanno permesso di saldare insieme soggettività differenti (portuali, studenti, disoccupati, ecc) e attuare blocchi delle infrastrutture, cortei spontanei, scioperi generali senza preavviso, scavalcando norme e divieti: i territori hanno riscoperto la loro potenza. Ciò che ieri poteva sembrare inscalfibile, oggi non lo è più. Ma la maschera è davvero caduta? Qui e oggi, dopo anni di propaganda filoisraeliana, menzogne, accordi milionari intrisi di sangue, accuse di antisemitismo e di fondamentalismo islamico per chi sventola la bandiera palestinese, è finalmente possibile nel cuore dell’Occidente complice di Israele, squarciare le narrazioni coloniali e razziste del sionismo? Oggi, che la priorità dello stato italiano è quella di depotenziare le proteste di massa, abbiamo il compito di una messa a critica dell’intero modello di sviluppo che ha permesso il genocidio dei palestinesi e che marcia spedito verso la guerra e la catastrofe.

Qual è il nostro ruolo?

Qual è il nostro ruolo e quali forme di solidarietà mettere in campo, adesso che le flotille hanno terminato la loro missione, intercettate dalla marina israeliana? Abbiamo urlato “Palestina libera, dal fiume fino al mare”. Allora continuiamo a sgomberare il campo dalle ambiguità, dalle visioni che mettono al centro ancora una volta la superiorità dell’Occidente. È necessario dismettere l’approccio caritatevole, che lascia inalterata la condizione del popolo palestinese, e rendere, invece, politica la nostra lotta. È questa la lezione del popolo palestinese: continuiamo a smascherare le complicità di un sistema marcio dalle sue fondamenta, a partire da chi ha storicamente contribuito a proteggere, legittimare e armare il sionismo. Frantz Fanon scriveva che il colonialismo non cede se non con il coltello alla gola. Il nostro compito è allora quello di appoggiare la resistenza dei popoli contro il loro invasore, cacciando anche i colonizzatori in casa nostra, coloro che pianificano sfruttamento e morte per i nostri territori. 

Rovesciare il paradigma

Gli accordi di “pace” unilateralmente imposti alle forze della resistenza palestinese non sono sicuramente un traguardo finale di cui essere riconoscenti: rappresentano una tregua ai bombardamenti, un cessate il fuoco che tanto abbiamo sperato, ma che non cancella la tragedia di un intero popolo né la funzione stessa di Israele come avamposto dell’Occidente in Medio Oriente. Nel frattempo, con le operazioni militari dell’IDF, il 58% della superficie della Striscia di Gaza è stata occupata e sottratta ai palestinesi, in un disegno coloniale di insediamento di cui tutto il mondo ha imparato a conoscere gli esiti: il fitto sistema di interdipendenze economiche e di alleanze politiche a trazione statunitense distribuisce la responsabilità e le connivenze, utilizzando i territori come snodi dell’apparato bellico

La sfida è rovesciare questo paradigma, rifiutare la gerarchia implicita di questo sistema, continuare a fare quello che abbiamo fatto per Gaza: difendere la vita, costruire comunità che si vogliono sottrarre alla catastrofe del sistema degli Stati/Capitale.  

 

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