Lottare per la Palestina, lottare per la nostra liberazione

Lottare per la Palestina, lottare per la nostra liberazione

(foto di Marta Passalacqua)

Due scioperi generali in pochi giorni, blocchi di autostrade, porti e stazioni ferroviarie, cortei spontanei. Le centinaia di migliaia di persone che hanno partecipato nelle ultime settimane alle manifestazioni per la Palestina in Italia hanno segnato un punto di svolta, con una partecipazione massiccia ed eccezionalmente eterogenea che non si registrava da decenni. Allo stesso tempo, oggi risulta centrale non lasciarsi sopraffare dall’entusiasmo dei numeri e non perdere di vista gli obiettivi e i contenuti. Cosa ci raccontano, allora, queste piazze?

Le mobilitazioni delle ultime settimane hanno dimostrato una notevole capacità di aggregazione, superando i confini dei tradizionali circoli militanti e delle strutture organizzate. Le piazze non sono state composte da un unico blocco sociale o politico, ma da un vero e proprio mosaico di realtà e soggettività diverse, che – anche se con una lunga latenza – sono riuscite a fare propri dei contenuti attorno ai quali per due anni è stato difficile aggregare e creare mobilitazione. La Palestina, la sua storia e la sua resistenza da un lato; il sionismo, il totale asservimento dei governi occidentali al blocco imperialista USA-Israele e il genocidio portato avanti nella più limpida impunità dall’altro, hanno messo in moto sentimenti e rabbia comune, esplodendo in un’unica lotta.

Una lotta che pare aver travolto d’un colpo le ammonizioni repressive del Decreto sicurezza, le accuse di antisemitismo, l’ipocrisia degli attuali rappresentanti di governo.

Gli attori in gioco

Una delle forze trainanti più visibili è stata quella degli studenti, sia universitari che delle scuole superiori. A partire dalle acampadas fino ai cortei di settembre e ottobre è chiaro che, per molti giovani, la causa palestinese è diventata paradigmatica di una più grande lotta contro l’oppressione, il colonialismo e il razzismo sistemico. Nei luoghi di formazione gli studenti non hanno solo elaborato richieste specifiche ma hanno creano comunità politiche, organizzano dibattiti, praticando forme che sfidano le gerarchie accademiche e il preteso “ruolo neutrale” dell’università.

A differenza del passato, le comunità palestinesi e le diaspore arabe in Italia hanno assunto un ruolo di primo piano, non solo come partecipanti ma come protagoniste della narrazione. La loro presenza ha dato voce diretta alla resistenza, spostando il dibattito da un’astratta questione geopolitica a una concreta lotta per l’autodeterminazione.

Un elemento di grande importanza è stata anche la forte partecipazione del sindacalismo, in particolare quello di base (come USB, Si Cobas) ma anche con un coinvolgimento della CGIL, che dopo alcuni tentennamenti, si è dovuta arrendere alla realtà delle piazze.  Slogan come “I soldi per la sanità, non per la guerra” hanno unito la lotta contro il genocidio a Gaza alla critica contro il riarmo e la politica estera del governo italiano. Lo sciopero generale proclamato a sostegno della Palestina ha rappresentato una prova di forza determinata e concreta, bloccando porti e logistica e dimostrando che la solidarietà può diventare azione materiale. È così che le agitazioni di questo periodo confermano lo sciopero come mezzo tatticamente efficace e insostituibile,  uno strumento di rottura della normalità del consumo e della complicità, in grado di intercettare la rabbia e la necessità sociale di presa di posizione.

Accanto ai nuclei organizzati, la vera novità è stata la massiccia partecipazione di persone non tradizionalmente attive in politica: genitori con i  propri figli, lavoratori pubblici e del settore privato, pensionati. Questi si sono mobilitati, certo, spinti da un imperativo morale di fronte alla brutalità delle immagini e alla percezione di un’inazione complice da parte delle istituzioni internazionali e del governo italiano; ma l’aspetto più rilevante e e per certi versi insolito è stata la forte unione che le piazze hanno dimostrato nonostante l’eterogeneità.  Crediamo che questo sia frutto dell’identificazione di un preciso obiettivo e la sensazione diffusa che non si possa rimanere indifferenti.

I fattori determinanti

La documentazione in tempo reale del genocidio, diffusa capillarmente tramite i social media, ha reso impossibile ignorare la violenza e la distruzione in atto nei territori palestinesi, aggirando la censura o la narrazione parziale dei media mainstream. Lo scollamento tra l’informazione giornalistica filogovernativa e quella senza filtri e immediata che viene prodotta e fruita dagli utenti, si amplia in modo irreversibile, fino a determinare un ribaltamento nel rapporto tra gli attori della comunicazione: talk show e telegiornali rincorrono le notizie diffuse online distorcendone il senso, ministri e opinionisti arrivano al ribaltamento della realtà pur di difendere un ordine del discorso di dominio e di appoggio a Israele che però convince sempre meno la popolazione, svelando con forza l’apparato di connivenza e complicità su cui si basa il modello di sviluppo attuale.

La paralisi dell’ONU, il sostegno acritico a Israele da parte di molti governi occidentali (incluso quello italiano) e la percezione di un doppio standard rispetto ad altri conflitti (come quello in Ucraina) hanno generato una profonda sfiducia nelle istituzioni, spingendo le persone a cercare nella piazza uno spazio di espressione e di pressione politica. Un altro aspetto è sicuramente il ruolo delle istituzioni. Sia quelle internazionali che quelle nazionali attuali, concepite in un’epoca storica ormai superata, dimostrano una crescente incapacità di rispondere in modo efficace alle crisi contemporanee, e ciò che sta avvenendo in Palestina ne è una delle manifestazioni più evidenti.

Questa paralisi, però, non è un difetto contingente, ma una caratteristica strutturale. Tali istituzioni sono state create per mantenere uno status quo che oggi è sempre più contestato. Di fronte a questa realtà, risulta sempre più necessario renderle obsolete costruendo dal basso alternative più efficaci e legittime.

Il movimento è stato abile nel legare la questione palestinese a problemi sentiti a livello locale: la critica alle spese militari, la lotta contro la militarizzazione dei territori e la difesa dei servizi pubblici.

Quindi si, la reazione emotiva ha sicuramente rappresentato lo slancio per molti ma ciò che vediamo oggi è anche l’espressione di una maturazione politica che unisce generazioni diverse, salda la solidarietà internazionale con le lotte sociali interne e contesta attivamente la narrazione dominante. La sfida futura per il movimento sarà quella di dare continuità a questa mobilitazione, trasformandola in una forza organizzata capace di incidere sulle decisioni politiche a lungo termine.

La lotta stessa diventa quindi un laboratorio politico. È all’interno della mobilitazione che nascono nuove forme di organizzazione, di solidarietà e di decisione che stanno scandendo i tempi delle ultime mobilitazioni, coinvolgendo migliaia di persone: presidi ai porti, assemblee studentesche, reti di boicottaggio, assemblee cittadine diventano gli embrioni di nuove istituzioni fondate sulla partecipazione diretta e dentro cui tutti trovano il loro spazio.

Ogni mobilitazione di massa crea delle crepe nel sistema esistente, aprendo fratture in cui è possibile agire e sperimentare un altro modo di vivere e fare politica. La solidarietà alla Palestina sta generando significativi spazi di decisionalità: di fronte al fallimento delle istituzioni consolidate, è necessario e possibile costruire nuove forme di organizzazione, dentro e attraverso la lotta stessa. Identificando obiettivi chiari e sfruttando gli spazi di potere che la mobilitazione apre, questo movimento non solo lotta per la liberazione di un popolo, ma offre anche un modello per affrontare le grandi crisi del nostro tempo.

Centralità delle assemblee territoriali

Perché la mobilitazione non si esaurisca con l’onda emotiva del momento, è fondamentale dotarsi di una visione strategica e organizzativa di lungo periodo. È qui che emerge la centralità delle assemblee territoriali. Questi organismi, radicati in quartieri, città e università, rappresentano la spina dorsale del movimento.

A differenza dei partiti tradizionali o delle istituzioni verticistiche, le assemblee permettono una partecipazione orizzontale e diretta. Non sono solo luoghi dove organizzare la prossima protesta, ma infrastrutture politiche che permettono di trasformare la solidarietà in un progetto politico coerente e lungimirante, capace di resistere alla repressione e di durare nel tempo.

La questione palestinese e la storia di quella resistenza non vanno inquadrate solo come un dovere di solidarietà, ma come un potente esempio strategico da seguire. La lotta del popolo palestinese contro un’occupazione militare tecnologicamente soverchiante e politicamente sostenuta dalle maggiori potenze mondiali ci insegna come sia possibile resistere e costruire alternative anche nelle condizioni più avverse.

In questo senso, la resistenza palestinese diventa un modello per tutti i popoli che lottano contro le diverse forme di oppressione. Essa ci ispira a liberarci dal colonialismo guerrafondaio, dagli eserciti e dalle basi militari che occupano i nostri territori e ci trascinano in guerra per il profitto di pochi. Sostenere la Palestina oggi significa lottare per la nostra stessa liberazione domani, costruendo un fronte unico contro la guerra, il colonialismo e l’imperialismo.

 

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