Oltre il mito del progresso: estrattivismo e conflitti attorno al ponte sullo Stretto

Oltre il mito del progresso: estrattivismo e conflitti attorno al ponte sullo Stretto
Pubblichiamo di seguito un nostro contributo uscito sull’ultimo numero di Quaderni della decrescita

Abstract. Il progetto del ponte sullo Stretto di Messina viene presentato come caso emblematico di estrattivismo infrastrutturale, in cui la costruzione di un’opera pubblica si trasforma in un dispositivo di accumulazione finanziaria e controllo territoriale. Il contributo analizza il modello normativo ed economico che sostiene il progetto, evidenziando come la sua continuità sia garantita attraverso deroghe legislative, commissariamenti e una governance accentrata, che di fatto esclude i territori da ogni processo decisionale. Inquadrato nella logica della shock economy, il ponte va configurandosi come una catastrofe annunciata, in cui il territorio viene preparato per essere espropriato e rifunzionalizzato secondo logiche speculative. L’articolo esplora, inoltre, le forme di resistenza territoriale e di mobilitazione collettiva, mettendo in luce la centralità delle comunità locali nel contrastare un modello di sviluppo imposto dall’alto e nel ripensare un futuro basato su giustizia ambientale ed economia di misura.

La lunga stagione del ponte

La storia del ponte sullo stretto di Messina è la storia di un eterno ritorno. Mentre scriviamo sembra ormai prossima l’approvazione del progetto definitivo da parte del CIPESS. Questo passaggio consentirebbe alla Stretto di Messina S.p.A., società concessionaria per la progettazione e realizzazione dell’infrastruttura, di avviare le prime attività preliminari, tra cui la bonifica delle aree di cantiere da eventuali ordigni bellici, le indagini archeologiche e la definizione delle piste di cantiere, con i primi espropri “bonari”. Sembrerebbe, quindi, che l’antica vicenda dell’attraversamento dello stretto tra Sicilia e Calabria sia giunta a un momento cruciale dell’iter di approvazione. Tuttavia, non è la prima volta che si assiste all’annuncio di un passo determinante, o alla simbolica posa della “prima pietra”. Il progetto del ponte rappresenta un nodo ricorrente nelle politiche infrastrutturali italiane, caratterizzato da un’alternanza ciclica di rilanci e sospensioni. A intervalli irregolari, in contesti storici diversi, emergono, infatti, suggestioni e proposte relative alla realizzazione di un collegamento stabile tra le due sponde.

Già sul finire del XIX secolo, a seguito dell’Unità d’Italia, l’onorevole Stefano Jacini commissionava uno studio per valutare la fattibilità di un’infrastruttura di attraversamento dello Stretto di Messina. Sin dalle prime analisi, emergevano significative difficoltà tecniche e ingegneristiche, oltre a ostacoli di natura ambientale ed economica. Tuttavia, questo primo tentativo dava avvio a un lungo processo di progettazione, che si protrarrà fino ai giorni nostri, coinvolgendo centinaia di ingegneri, economisti e geologi. Un momento di svolta arriva nel 1971, quando il collegamento stabile viario e ferroviario tra Sicilia e continente viene definito dalla legge n.1158 del 17 dicembre “opera di prevalente interesse nazionale”.

Dieci anni dopo viene istituita la Stretto di Messina S.p.A, società finanziata con fondi pubblici per promuovere campagne di legittimazione del progetto e commissionare studi a istituzioni tecniche, a gruppi professionali, a singoli o equipe scientifiche universitarie La prima redazione del progetto di massima arriva nel 1992, a partire da questa data il dibattito attorno alla fattibilità, all’utilità e all’impatto del ponte investirà progressivamente fasce sempre più ampie non solo di esperti, ma della popolazione del paese e delle associazioni ambientaliste (Pieroni, 2011).

Nel 2001, durante il governo Berlusconi, il ponte viene inserito tra gli interventi prioritari della legge nº 443, conosciuta anche come Legge Obiettivo, che stabilisce procedure e modalità di finanziamento per la realizzazione di grandi infrastrutture disseminate per la penisola nel decennio dal 2002 al 2013. Si tratta di una norma di semplificazione che introduce la figura del General Contractor, un soggetto unico cui affidare la progettazione e la costruzione delle opere identificate come strategiche. Questo dispositivo normativo consente al progetto del ponte di aggirare una serie di vincoli amministrativi e concessori, soprattutto quelli legati alle gare per l’assegnazione della realizzazione delle opere, favorendo un’accelerazione dell’iter burocratico4 .

Nel 2006 viene firmato l’accordo con il General Contractor Eurolink, un consorzio d’imprese con a capo Impregilo. La gara è vinta per 3,9 miliardi di euro e prevede un contributo statale superiore al 50% dell’onere della costruzione e la possibilità di gestire privatamente il ponte per 50 anni. Nel 2011, il Consiglio di Amministrazione della Stretto di Messina S.p.A. approva il progetto elaborato dal General Contractor. Tuttavia, la proposta non ottiene il via libera della Valutazione di Impatto Ambientale. Il processo di annullamento definitivo viene formalizzato l’anno successivo dal governo Monti, che, nel quadro delle politiche di risanamento della finanza pubblica richieste dall’Europa, dispone una verifica tecnica ed economico-finanziaria sul progetto definitivo e la successiva caducazione del contratto.

Sembrava dunque che la vicenda fosse giunta a una conclusione definitiva e che l’ultimo passaggio necessario riguardasse la liquidazione della società concessionaria. Di fatto, però, nessuno dei governi succedutisi nell’ultimo decennio ha concluso il processo di dismissione della Stretto di Messina S.p.A. A nulla sono valse neanche le reiterate richieste della Corte dei conti, che a seguito della soppressione della funzione principale della società, ossia la realizzazione del ponte, ne segnalava l’inutilità e l’onerosità per le casse pubbliche.

Altro aspetto di rilevante interesse è relativo proprio alla posizione espressa dai partiti politici rispetto al progetto: si registrano, sul punto e negli anni, continue oscillazioni e variazioni in base alla collocazione fra le forze di governo o tra quelle di opposizione. Da una prospettiva governativa, infatti, l’accesso alla gestione delle risorse economiche allocate per l’opera rappresenta un vantaggio tangibile, mentre dall’opposizione risulta più conveniente capitalizzare il dissenso, ampiamente maggioritario tra le popolazioni residenti nelle aree interessate.

Nel 2022 con l’ascesa al governo delle forze di destra riunitesi nel governo Meloni, il progetto è stato nuovamente rilanciato. In particolare, il Ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha costruito attorno alla realizzazione del ponte l’elemento centrale della propria strategia comunicativa nel tentativo di cucirsi addosso un’immagine di efficienza e pragmatismo politico. In quanto opera più imponente e ardita tra quelle messe in campo nel panorama italiano, il ponte torna in auge come simbolo di grandezza infrastrutturale e modernizzazione. Il progetto viene quindi riattivato sulle basi del contratto precedentemente caducato, riproponendo un’iniziativa che sembrava definitivamente archiviata.

Attraverso il cosiddetto Decreto Ponte del marzo 2023 viene introdotta la “reviviscenza del contratto”, un atto più filosofico che giuridico, finalizzato a evitare di dover ripartire da zero. Questa manovra permette di riprendere in blocco tutti gli elementi già in essere: il progetto, la società concessionaria e il General Contractor. Si tratta di una operazione che si regge su un presupposto fragile: la necessità che nulla sia cambiato rispetto alla configurazione originaria. Il contesto, però, si era già ampiamente trasformato e con esso le aziende che costituivano il consorzio d’imprese responsabile della progettazione e costruzione del ponte. Impregilo, originariamente capofila del consorzio Eurolink, era ad esempio confluita in Webuild attraverso una serie di fusioni societarie. Ancora più significativo il caso di Astaldi, un tempo leader del consorzio che aveva conteso l’appalto a Eurolink, anch’essa ora parte integrante di Webuild. Questo rimescolamento ha creato un quadro giuridico e operativo complesso, rendendo il riavvio del progetto soggetto a possibili contenziosi. Nonostante le evidenti problematicità, l’operazione è stata comunque portata avanti, resa possibile soprattutto dalla decisione di mantenere attiva la Stretto di Messina S.p.A., che ha svolto un ruolo centrale nella riattivazione del progetto.

La produzione normativa dell’eccezione

La storia del ponte sullo Stretto è anche la storia di un laboratorio di produzione normativa. Negli sviluppi più recenti, il Decreto Ponte è stato affiancato dal Decreto Infrastrutture, una misura che introduce un’ulteriore semplificazione procedurale, permettendo l’avvio dei lavori per fasi anche in assenza di un progetto esecutivo complessivo. Questo approccio consente di posticipare la discussione sui principali nodi critici dell’opera, inclusi quelli legati alla sua sostenibilità economica e ambientale, privilegiando l’apertura dei cantieri come primo e principale obiettivo.

In questo modello, la realizzazione dell’infrastruttura non rappresenta necessariamente la finalità ultima, né tantomeno un traguardo da raggiungere nel minor tempo possibile. Ciò che viene indentificato come l’obiettivo centrale è piuttosto la perpetuazione dell’iter progettuale e amministrativo, la continuità della cantierizzazione e il mantenimento del flusso di finanziamenti pubblici destinati al progetto. A partire dalla Legge Obiettivo del 2001, si è sviluppato un corpus legislativo volto a ridefinire la governance delle grandi opere attraverso la sistematica sospensione della norma, sostituita da un regime di stato di eccezione (Agamben, 2005). Questo assetto ha consentito di aggirare la normativa vigente e creare vere e proprie zone di sperimentazione capitalistica, in cui le decisioni su progetti considerati strategici vengono sottratte alle dinamiche ordinarie e poste sotto il controllo diretto del governo, di fatto annullando il ruolo degli enti territoriali e delle comunità locali.

L’accentramento del processo decisionale elimina le procedure di consultazione pubblica a favore di un approccio straordinario basato su deroghe e semplificazioni procedurali. In questo modo, le Grandi Opere, tra cui il ponte sullo Stretto, si configurano come strumenti di governance territoriale che prescindono dalle esigenze e dalle istanze delle popolazioni direttamente coinvolte, favorendo una gestione politica ed economica orientata a logiche di accumulazione e controllo.

All’interno di una più ampia dinamica estrattivista (Zibechi, 2016) il territorio non è più concepito come uno spazio vissuto e plasmato dalle comunità locali, ma mero strumento funzionale agli interessi politico-economici che governano il progetto. Un processo di espropriazione in cui le decisioni vengono imposte dall’alto, ignorando le esigenze delle popolazioni locali e trasformando il territorio in un foglio bianco su cui imprimere uno schema di “sviluppo” concepito altrove.

Questo meccanismo si concretizza nell’appropriazione sistematica dello spazio fisico ed economico da parte di attori istituzionali e imprenditoriali, che utilizzano il progetto come strumento di accumulazione di risorse finanziarie e di consenso politico. Una delle caratteristiche fondamentali di questo sistema è la sua indeterminatezza temporale: non è mai chiaro il momento esatto in cui un territorio viene definitivamente destinato a un’opera specifica. Inizialmente, la decisione appare come un semplice atto burocratico, privo di conseguenze tangibili, una mera ipotesi di sviluppo infrastrutturale elaborata in sedi lontane dalla realtà locale. In questa fase, il progetto sembra remoto, qualcosa di astratto e improbabile, utile più che altro per ottenere finanziamenti per studi di fattibilità o per alimentare il dibattito politico. Eppure, proprio in questo momento, il territorio subisce una trasformazione silenziosa: viene vincolato a una destinazione d’uso che diventa sempre più difficile da revocare, se non attraverso un processo di resistenza e mobilitazione collettiva. Questo meccanismo, apparentemente invisibile, rappresenta una delle principali manifestazioni dell’estrattivismo contemporaneo alle nostre latitudini: un processo in cui il territorio viene progressivamente sottratto alle comunità locali per essere inserito in circuiti di valorizzazione economica e speculativa.

In questo senso, il ponte sullo Stretto non è tanto un’infrastruttura da realizzare, ma un dispositivo politico attraverso il quale esercitare il controllo del territorio, ridefinendo le relazioni di potere e imponendo una visione dello sviluppo basata sulla massimizzazione del profitto piuttosto che sul benessere delle popolazioni coinvolte. Le Grandi Opere non hanno fretta. Vivono di risorse pubbliche. Sono affidate a grandi imprese di costruzione (poche, sempre quelle), che agiscono su vari quadranti e in relazione allo stato di avanzamento spostano risorse e lavoratori. Da un certo punto di vista, sono insensibili agli intoppi che il caso o gli oppositori pongono loro. Anzi, più il processo si prolunga, più aumenta il flusso di finanziamenti. Non esiste opera di questa portata che sia stata completata nei tempi previsti né che non abbia subito un incremento dei costi rispetto alle stime iniziali. Se per garantire la continuità dell’iter progettuale e realizzativo è necessario modificare il quadro normativo, si procede senza esitazione.

Il ponte sullo Stretto, dunque, non si configura solo come un’infrastruttura controversa, ma come un’incompiuta programmata, perfettamente in linea con la logica che ha caratterizzato il sistema delle Grandi Opere in Italia dalla Legge Obiettivo in poi.

Il Rapporto 2018 dell’Agenzia per la Coesione Territoriale evidenzia che le infrastrutture con un costo superiore ai 100 milioni di euro vengono completate, in media, in 15,7 anni: 6,4 anni per la progettazione, 1,7 per l’affidamento e 7,7 per la realizzazione. Anche opere di dimensioni molto più contenute presentano tempi di realizzazione fuori controllo, dimostrando che questa non è una semplice inefficienza amministrativa o un inconveniente effetto collaterale, ma un vero e proprio metodo operativo. In considerazione dell’iter finora seguito, i tempi di realizzazione del ponte non possono che essere misurati in decenni piuttosto che in anni. L’attuale fase, dunque, sembra configurarsi non come l’effettivo avvio della costruzione del ponte, ma come un’operazione di progettazione mirata a produrre un’ulteriore incompiuta. Una progettazione, però, non meno pericolosa per gli abitanti dell’area dello Stretto giacché l’investimento politico effettuato sul ponte impone oggi a Salvini l’avvio della cantierizzazione tanto annunciata.

Estrattivismo e “modello ponte”

L’estrattivismo è una forma di accumulazione del capitale finanziario attraverso l’appropriazione della natura e dei beni comuni per convertirli in beni di consumo. […] Una differenza fondamentale tra l’estrattivismo e il sistema industriale è che in quest’ultimo gli esseri umani erano una risorsa da sfruttare e che serviva raggiungere il plusvalore; nell’estrattivismo intere popolazioni sono ostacoli che devono essere rimossi per lasciar spazio, per esempio, alle miniere a cielo aperto, alle monoculture, come la soia, o alle grandi opere infrastrutturali, come quelle per trasportare gli idrocarburi. C’è poi anche un estrattivismo urbano, che si manifesta tramite la gentrificazione, che sta avvenendo in tutto il mondo. […]

Ci troviamo di fronte non solo a un modello economico, ma a una vera e propria società estrattiva, che implica una militarizzazione del territorio che crea le basi per uno Stato di polizia. (Zibechi, 2018). Il paradigma estrattivista offre una chiave di lettura efficace per cogliere alcune dinamiche politiche ed economiche sottese alla progettazione e costruzione del ponte sullo Stretto.

La narrazione dominante per legittimare la costruzione dell’opera si è recentemente incentrata sulla retorica della sostenibilità. L’idea di un ponte green, più ecologico dei traghetti – secondo i suoi promotori – viene utilizzata per giustificare la libera circolazione di capitali e per l’adozione di un modello di sviluppo fondato sull’aggressione ai territori, l’estrazione di profitti dalla terra e dalle biografie dei suoi abitanti. Un modello che esclude qualsiasi reale coinvolgimento delle comunità locali nei processi decisionali e marginalizza persino le amministrazioni territoriali. I sindaci, per esempio, non hanno alcun potere effettivo nel determinare le scelte che riguardano il progetto e spesso vengono neutralizzati attraverso la logica degli interventi collaterali e compensativi. Questi ultimi, agendo come strumenti di cooptazione, pongono le comunità di fronte a un’alternativa forzata: accettare il ricatto di promesse occupazionali e finanziamenti o subire le conseguenze della devastazione ambientale e sociale connessa alla realizzazione dell’opera. Il meccanismo è quindi quello tipico dell’estrattivismo: un processo unilaterale di sfruttamento che trasforma il territorio in una merce e che riduce le popolazioni locali a variabili irrilevanti nel più vasto schema di accumulazione capitalistica.

Negli anni si è ampiamente dibattuto su quanto questa opera presenti difficoltà tecniche e insidie economiche, sociali e ambientali, al punto che anche una parte della comunità scientifica si è espressa contrariamente alla sua realizzazione. L’opposizione alla costruzione del ponte si è sviluppata, infatti, attorno ad un ampio dibattito volto ad evidenziare le molteplici regioni che rendono l’opera inutile, dannosa e insostenibile. Per comprendere meglio ciò che questo progetto rappresenta bisogna però inquadrarlo nel contesto più ampio dei processi attivi nei territori del meridione d’Italia, in parte assoggettati a logiche di dominazione coloniale.

Un primo aspetto riguarda la gestione dei fenomeni dell’emigrazione interna e dello spopolamento, ben presenti sul territorio siciliano e calabrese; territori “marginali”, in cui i processi di accumulazione avvengono in buona parte tramite la realizzazione di discariche, inceneritori, raffinerie, infrastrutture militari, centri di espulsione, carceri ad alta sicurezza, aree di stoccaggio di scorie di vario tipo, impianti invasivi di pannelli solari (ultima frontiera dello sfruttamento: l’aggressione al territorio attraverso la transizione energetica). In un simile contesto, la popolazione, in particolare quella giovanile, viene progressivamente espulsa o ridotta a forza lavoro precaria, privata di strumenti di autodeterminazione. Chi resta, sebbene ancora in grado di incidere sulle dinamiche territoriali, si trova di fronte a un processo di destrutturazione comunitaria che di fatto apre la strada all’avanzamento del capitale estrattivo.

Un ulteriore aspetto che lega la progettazione e costruzione del ponte ai processi estrattivisti attivi nel meridione d’Italia è la creazione di economie di enclave, come espressione estrema di spazi socio-produttivi strutturalmente dipendenti dall’esterno. Le enclave erano infatti tra le principali forme di occupazione dello spazio nel modello coloniale-imperialista, caratterizzate dalla possibilità di eludere qualsiasi rapporto con l’ambiente circostante: economie verticali che non si articolano con le economie delle popolazioni, ma «estraggono, traggono e sottraggono, non interagiscono; impoveriscono la terra e il tessuto sociale, e isolano le persone» (Zibechi, 2018).

L’estrattivismo si manifesta, poi, attraverso precise dinamiche di occupazione e controllo territoriale, che prevedono la progressiva espulsione delle comunità locali e la riduzione delle loro possibilità di autodeterminazione attraverso strumenti di repressione e militarizzazione. Il ponte sullo stretto nel suo dispiegarsi fin qui pare incarnare esattamente questa modalità di gestione politica del territorio: la diffusione dei cantieri non è semplicemente un fenomeno tecnico, ma una strategia per la riorganizzazione dello spazio e il rafforzamento del controllo statale attraverso l’uso della forza.

Se il Decreto Ponte e il Decreto Infrastrutture hanno consentito di aggirare gli ostacoli derivanti dai cambiamenti del quadro politico e dalle difficoltà di natura progettuale, il recente DDL Sicurezza ha significativamente inasprito le pene per le pratiche di mobilitazione adottate dai movimenti sociali negli ultimi decenni. In particolare, una sezione del disegno di legge è espressamente dedicata alle azioni di opposizione alle Grandi Opere, e introduce misure aggravanti per cui «se la violenza o minaccia a un [pubblico ufficiale] è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di una infrastruttura strategica la pena è aumentata».

Questo emendamento, voluto dalla Lega e ribattezzato “No ponte”, si inserisce in una più ampia strategia di criminalizzazione dei movimenti territoriali, che riduce il diritto alla protesta e rafforza l’apparato repressivo necessario a garantire la trasformazione forzata del territorio. Questi aspetti vanno di pari passo con la costruzione artificiale di conflitti sociali all’interno delle comunità. L’istituzione di un’opera di questa portata non solo genera contrapposizioni tra chi subisce direttamente gli impatti negativi e chi, invece, viene cooptato nel processo di realizzazione, ma crea anche fratture politiche e sociali che impediscono una resistenza unitaria ed efficace.

Lo Stato, di fronte a una contestazione che si pone in termini di radicale non negoziabilità, risponde intensificando le misure repressive e securitarie. Questo fenomeno si osserva chiaramente nella militarizzazione di aree strategiche come il Muos di Niscemi o la base NATO di Sigonella, nonché nella crescente pressione giudiziaria, poliziesca e amministrativa sulle mobilitazioni territoriali.

Nel caso del ponte la convergenza tra interessi infrastrutturali e apparato securitario trova ulteriore conferma nella scelta di figure legate al mondo della sicurezza e dell’ordine pubblico per la gestione dell’opera. Non è un caso che Gianni De Gennaro, ex capo della polizia durante il G8 di Genova e presidente di Leonardo dal 2013 al 2020, sia stato nominato a capo di Eurolink, il consorzio responsabile della progettazione e costruzione del ponte. Analogamente, dal giugno 2023, il generale Giovanni Truglio è stato posto a capo del Comando interregionale carabinieri di Sicilia e Calabria, dopo aver fatto parte delle Compagnie di contenimento e intervento risolutivo costituite per fronteggiare le proteste contro il G8 del 2001.

Attorno al ponte sullo Stretto sembra quindi delinearsi un articolato modello estrattivista di cui pare utile evidenziare i tratti principali:

la città cantiere – un territorio intero viene espropriato attraverso la disseminazione di cantieri in tutta la città coinvolgendo, direttamente o indirettamente, gran parte della popolazione;

la città blindata – la cantierizzazione e gli eventi legati all’avanzamento dell’iter sono accompagnati da una vera e propria occupazione del territorio, con militarizzazione e chiusura di arterie cittadine fondamentali;

la progettazione spezzatino – Il progetto esecutivo viene frammentato in più fasi, garantendo un’occupazione prolungata del territorio senza scadenze definite, con continui aumenti di costi e deroghe normative. Si assiste di fatto ad una cessione senza limiti di tempo alla governance dell’infrastruttura;

la criminalizzazione delle lotte – Il rafforzamento delle misure repressive contro chi si oppone ai cantieri (o semplicemente annunciano di volerlo fare) mira a dissuadere la protesta e a limitare la partecipazione degli abitanti;

la verticalizzazione delle scelte – il territorio e le sue istituzioni sono totalmente marginalizzati e il loro pronunciamento non ha alcun effetto nel processo decisionale;

la finanziarizzazione dell’infrastruttura – L’iter progettuale e costruttivo genera cicli speculativi sui mercati finanziari, favorendo ad ogni annuncio il rimbalzo delle azioni delle imprese coinvolte;

l’irreggimentazione delle corporazioni professionali – Le categorie tecniche e professionali vengono cooptate con la prospettiva di partecipare a opere collaterali, alimentando consenso e dipendenza economica.

Questo modello, frutto di una costruzione sedimentata nel tempo è oggi probabilmente applicabile a qualsiasi altra Grande Opera disseminata sul territorio italiano.

Del ponte e di altri disastri

Il “modello ponte” appena delineato permette di mettere in luce un elemento centrale che accomuna le grandi opere ai disastri, ovvero la capacità di generare condizioni di emergenza che legittimano la sospensione della norma e creano le premesse per trasformazioni economico-sociali radicali. Secondo Naomi Klein (2007), la dottrina dello shock è una pratica sistematica del capitalismo neoliberale, fondata sulla strumentalizzazione delle crisi – naturali, economiche, politiche – per introdurre misure di ristrutturazione radicale che incidono sul futuro collettivo delle comunità interessate a beneficio delle élite economiche e finanziarie.

Le catastrofi, in questa prospettiva, non sono soltanto eventi distruttivi ma diventano vere e proprie opportunità per ridefinire l’uso del territorio, smantellare diritti e favorire processi di accumulazione. Se il capitalismo dei disastri sfrutta le emergenze per imporre cambiamenti irreversibili, le Grandi Opere sembrano funzionare come disastri programmati, in cui il territorio viene preparato a una trasformazione irreversibile attraverso un processo di sperimentazione istituzionale, normativa ed economica.

Il ponte sullo stretto rappresenta un caso emblematico di questa logica: un dispositivo di shock, un progetto che, indipendentemente dalla sua realizzazione, opera come strumento per la ridefinizione delle relazioni di potere e dell’assetto territoriale. Nella teorizzazione di Klein, le crisi vengono utilizzate come finestre di opportunità per accelerare la riorganizzazione dello spazio economico e politico. Tuttavia, mentre la shock economy si manifesta tipicamente nel post-disastro, il modello del ponte sembra anticipare questa logica agendo prima che l’evento distruttivo si verifichi. La sua lunga fase di progettazione, le deroghe legislative che lo accompagnano e l’imposizione dall’alto del modello di sviluppo che incarna, trasformano il territorio in un laboratorio di sperimentazione.

Dal punto di vista giuridico, dalla Legge Obiettivo, passando per il Decreto Ponte e il Decreto Infrastrutture, prendono corpo strumenti normativi che sospendono le procedure ordinarie, creando un vero e proprio stato di eccezione che, come nel post-disastro, consente di eludere vincoli normativi e ambientali. Questa sospensione non è solo temporanea: stabilisce una nuova governance del territorio, in cui decisioni cruciali vengono centralizzate e imposte dall’alto.

Parallelamente, il processo di cantierizzazione avvia una serie di interventi che sembrano preparare una vera e propria tabula rasa, destrutturando il paesaggio e predisponendolo a nuovi usi. Come evidenzia la teoria della shock economy, la creazione di spazi vuoti è finalizzata da una loro rifunzionalizzazione secondo le esigenze del capitale. Nel caso del ponte il territorio non viene ricostruito dopo il disastro, ma preparato a un futuro in cui la sua stessa esistenza sarà ridisegnata dalla logica della Grande Opera.

Il ponte sullo Stretto, come molte altre grandi opere italiane, non è progettato per essere completato in tempi certi, ma per rimanere permanentemente in uno stato di incompiutezza operativa. Il prolungamento della fase progettuale, l’incremento sistematico dei costi e delle tempistiche non sono un’anomalia, ma una metodologia di governo: il mantenimento costante dello stato di emergenza legittima la prosecuzione dei finanziamenti, la gestione centralizzata del progetto e l’afflusso di risorse pubbliche a favore di imprese private. L’incompiuta, dunque, non è un fallimento del sistema, ma una sua componente strutturale. La perenne e apparente fase di avvio che avvolge l’opera genera lo stesso effetto di una ricostruzione post-catastrofe: non è mai completata, ma produce un impatto permanente sulle dinamiche territoriali e sulle economie locali. In questa prospettiva, il disastro non è un evento esterno che interrompe la normalità, ma una condizione istituzionalizzata che consente di mantenere aperti i processi di trasformazione. L’analisi sociale post-disastro dimostra come gli eventi estremi non siano solo momenti di crisi, ma occasioni per la ridefinizione delle logiche di accumulazione (Ginatempo, 1976; Rozario, 2007, Mantineo, 2025).

In questo senso, il ponte sullo stretto può essere letto come una catastrofe senza disastro, un processo in cui il territorio viene progressivamente spogliato della sua funzione sociale e riorganizzato secondo logiche speculative. Il disastro, in questo caso, emerge nella sua veste di processo sistemico che si sviluppa nel tempo, trasformando il territorio in un campo di sperimentazione per le logiche di accumulazione neoliberale. La vera catastrofe, qui, non è l’eventuale crollo di un’infrastruttura mal progettata, ma il processo stesso che, attraverso la sua realizzazione o il suo prolungato stato di incompiutezza, ridefinisce le relazioni di potere, impoverisce il territorio e ne compromette il futuro. 

Prospettive di futuro

Nella storia del ponte c’è, però, un intoppo imprevisto: il formarsi di un imponente movimento popolare contrario all’opera. Quella dell’opposizione all’infrastruttura è ormai una storia più che ventennale. Iniziata da parte di pochi militanti, si è poi estesa fino a dare vita a una miriade di iniziative di mobilitazione, dai cortei e le assemblee cittadine e nazionali, al contrasto sul terreno giuridico, passando per l’autoformazione sugli aspetti tecnico-ingegneristici dell’opera (Della Porta e Piazza, 2008).

Si tratta di un movimento estremamente composito, attraversato da sensibilità politiche, da linguaggi e pratiche diverse. È stato, però, un fatto inatteso. In un territorio che avverte forte il bisogno di una prospettiva, dal quale intere generazioni vanno via, la governance dell’opera aveva pensato di potersi affermare facilmente. Non è stato così. In tanti hanno ritenuto fosse indispensabile battersi per salvare il proprio ambiente, il paesaggio, il tessuto sociale, la vivibilità degli spazi per le generazioni che sarebbero interessate dalla cantierizzazione.

Per molti, poi, gioca un ruolo importante la mancanza di fiducia per un apparato politico-finanziario che appare come una truffa e che minaccia di occupare il territorio per decenni, senza probabilmente neanche giungere alla realizzazione dell’opera, arricchendo pochi a discapito di molti. Se nella storia d’Italia il ponte è stato ciclicamente riproposto dalle forze politiche al governo e dall’expertise ad esse connesse come la possibilità di sviluppo e ricchezza da cogliere al volo, il movimento No ponte ha provato a ribaltare questo immaginario. “Un solo no e tanti sì” è uno degli slogan più noti. Che i soldi per il ponte siano spesi nel rafforzamento delle infrastrutture esistenti, nella messa in sicurezza del territorio segnato da vulnerabilità strutturali del tessuto ambientale e socio-economico e dalle ferite ancora aperte delle alluvioni di Giampilieri e dei territori vicini del 2009.

«Gli abitanti e le abitanti dello stretto sanno che il territorio che abitano ha bisogno di altro genere di ponti; che è urgente fare fronte al degrado opprimente, al gravissimo dissesto idrogeologico, sanno che è indifferibile risanare strade troppo vecchie e fatiscenti e un sistema ferroviario inefficace. Sanno che occorre dare forza agli avamposti di relazione, socialità e cultura» (Risitano, 2024).

La polarizzazione delle posizioni sulla costruzione del ponte riflette, quindi, lo scontro tra due modelli di sviluppo profondamente divergenti. Da un lato, un’ideologia fideistica che esalta la crescita illimitata, l’innovazione tecnologica senza limiti e il dominio dell’essere umano sulla natura come unica prospettiva di futuro. Dall’altro, una visione che riconosce il fallimento del modello socio-economico dominante e propone una riconfigurazione del rapporto tra comunità e territorio, privilegiando il patrimonio relazionale, il mantenimento delle condizioni di abitabilità del pianeta e l’equilibrio ecologico.

Di fronte a un paradigma fondato sullo sfruttamento integrale, sull’indebitamento strutturale e sullo smantellamento dei servizi essenziali, il ponte si configura come un ulteriore strumento di subordinazione economica e di riproduzione delle disuguaglianze territoriali. In contrapposizione alla logica estrattivista e alla verticalizzazione delle scelte decisionali, emerge la necessità di strumenti alternativi, che interrompano la furia distruttiva delle politiche estrattiviste e che siano concepiti fuori dal sistema Stato/Capitale, entro la cornice di un’economia di misura, come modo di produzione e riproduzione di territori liberi, indipendenti dalle logiche del profitto e dall’imposizione delle Grandi Opere.

In quest’ottica l’opposizione al ponte non si configura esclusivamente come il contrasto ad un’infrastruttura specifica, ma come affermazione di un altro modo di concepire le relazioni sociali e ambientali basato sul comune e sulla misura, sull’autogoverno e la centralità delle comunità territoriali nei processi decisionali, contrastando la dismisura del sistema del profitto e dei suoi assetti proprietari: un altro modo di abitare il mondo.

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