Fu e non sarà chiù. Alcune riflessioni dopo la tempesta

Fu e non sarà chiù. Alcune riflessioni dopo la tempesta
Sono stati giorni duri, siamo tornati a contare i danni e ahinoi i morti. La tempesta è passata (almeno per il momento) e sta tornando la quiete.
Quanto accaduto in Sicilia nell’ultima settimana ha lasciato tutti senza fiato. Ci siamo stretti tutti intorno al dolore di chi è stato maggiormente colpito. Dolore per una ferita troppo grande che adesso, però, deve essere rimarginata collettivamente. La provincia di Catania e quella di Siracusa non dovranno essere lasciate sole e quanto accaduto dovrà servire per non ripetere gli stessi errori.

 

Fu e non sarà chiù

Fu e non sarà chiù (è successo e non succederà più) è un modo di dire siciliano, forse uguale in ogni angolo dell’isola. Lo si usa dopo avere fatto o avere vissuto qualcosa dai risvolti negativi. Quando diamo fiducia a qualcuno e questa non viene ricambiata diciamo Fu e non sarà chiù. Oppure quando andiamo a mangiare in un posto e il cibo non è buono o il conto è salato, Fu e non sarà chiù. O quando si permette un abuso, un’ingiustizia: Fu e non sarà chiù.

E lo usiamo anche se poi torniamo dalla persona che ha tradito la nostra fiducia, nel locale dove abbiamo mangiato male e pagato molto. Addirittura, quando continuiamo a permettere abusi e ingiustizie.

Sappiamo che questo tipo di calamità naturali è straordinario – anche se sempre più frequente – e che a Catania, Augusta, Lentini, non sarebbe bastato farsi trovare con le caditoie pulite e il sistema fognario perfettamente funzionante. Ma questo non può essere un alibi. Perché sappiamo anche che se le nostre città non fossero ormai ridotte a delle enormi distese di cemento, molta di quell’acqua piovuta non avrebbe arrecato danni.

 

Conquistare risorse, organizzare la difesa dei territori

Quindi certo, c’è il grande problema che riguarda l’urgenza – di cui si parla da anni – di investire molti soldi per la messa in sicurezza dei territori e la prevenzione; c’è anche il problema dell’impiego di questi soldi, della necessità che vengano investiti e spesi bene. Ma il problema centrale rimane il modello di sviluppo imposto ai territori, l’insensato modo di procedere alla sua cementificazione, i modi sventurati con cui si pianificano le città che, come abbiamo avuto modo di vedere, diventano vere e proprie trappole per topi.

In sostanza: la crisi climatica è in atto e noi – le comunità – in questo momento non abbiamo gli strumenti né per mitigarla né per fronteggiarla. Gli strumenti potrebbero averli coloro che detengono il potere, ma non hanno nessun interesse a usarli; quindi non possiamo fare altro che smettere di dire Fu e non sarà chiù e organizzarci per mettere in discussione alla radice il modello di sviluppo imposto ai nostri territori e lottare per conquistare le risorse e gli strumenti che ci servono per difenderci dalla catastrofe generata da chi sta in alto e comanda. Perché se continua così loro si salveranno, noi no.

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