Territorialismo, neoliberismo, leghismo. Di Ottavio Marzocca

Gli studi territorialisti negli ultimi decenni hanno avuto una grandissima importanza soprattutto perché hanno rappresentato una sorta di controcanto rispetto alla narrazione dominante sui processi di globalizzazione, che tendeva a presentare questi ultimi come processi univoci di deterritorializzazione o di despazializzazione. Questi studi rivelavano, direttamente o indirettamente, che in realtà un altro portato essenziale della globalizzazione era il riemergere di questioni territoriali che si esprimevano nelle maniere più disparate: dalle ricadute territoriali del degrado ambientale provocato dal fordismo in crisi alla riscoperta della varietà delle identità culturali locali. Il controcanto territorialista fu intonato negli anni Ottanta pressoché simultaneamente all’avvio dei processi principali da cui è scaturita o che hanno accompagnato la globalizzazione (crisi del welfare state, superamento del fordismo, nascita della “rete” ecc.) e, di fatto, ha rappresentato uno dei tentativi più apprezzabili di svincolare i fenomeni di riterritorializzazione cui ho accennato dal destino degenerativo che spesso sembra caratterizzarli (qui basti richiamare l’esempio delle guerre interetniche dei Balcani). Oggi la globalizzazione pare essere entrata in una crisi profonda e perciò – almeno in teoria – ne dovrebbero risultare confermate le buone ragioni che il territorialismo ha accampato fin dalla sua nascita nel rivendicare il carattere strategico e alternativo del “progetto locale” rispetto alla prospettiva globale. Ciò che non si può fare a meno di considerare, però, è che negli anni Ottanta si verificarono almeno altri due “sblocchi” politico-culturali intrascurabili, le cui conseguenze si protraggono fino ad oggi: il trionfo del neoliberalismo come forma dominante di razionalità di governo della società e il decollo del localismo discriminatorio di stampo leghista, cui si sono affiancati negli anni Novanta gli etno-razzismi cruenti dell’Europa orientale.

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