«Cu nesci arrinesci»? Sconfessare il detto siciliano, aprire una riflessione sull’idea di “riuscire”.

«Cu nesci arrinesci»?  Sconfessare il detto siciliano, aprire una riflessione sull’idea di “riuscire”.
di Si Resti Arrinesci
Abbiamo letto e riletto con attenzione le parole scritte da Giovanni Petrungaro sul quotidiano La Gazzetta del Sud del 7 Gennaio. L’articolo racconta dell’ormai iconico esodo che segue l’epifania dei milazzesi emigrati, del vuoto che giovani e meno giovani lasciano risalendo su quel Giuntabus che porta verso l’aeroporto di Catania. Più in generale, in quelle righe si prova a raccontare un fenomeno che è specchio di «una crisi siciliana» secondo la quale non esisterebbe alternativa all’emigrazione.  Abbiamo deciso di replicare perché ci siamo sentiti tirati in causa e perché crediamo che, seppur in poche righe, sia utile contribuire alla discussione con il punto di vista di chi ha fatto della lotta all’emigrazione oggetto del proprio impegno sociale e politico. 

Ribaltare il detto siciliano

Abbiamo scelto Si Resti Arrinesci come nome della nostra associazione e della campagna per il contrasto all’emigrazione forzata. Diciamo chiaramente che la scelta del nome è stata una provocazione. Da subito ci siamo dati l’obiettivo di ribaltare, anzitutto dal punto di vista culturale, ciò che il detto «cu nesci arrinesci» sottende: se emigri per lavorare ti affermi (riesci), se resti in Sicilia rimani isolato, sei destinato al fallimento.

 

Cosa vuol dire riuscire?

L’articolo in questione punta l’attenzione, giustamente, su un fenomeno drammatico che riguarda ormai quasi tutte le famiglie siciliane. Tuttavia, pensiamo che prendere per assolutamente vera la dicotomia posta dal detto sia fuorviante e faccia il gioco di chi vuole vedere la Sicilia ridotta a deserto. Perché? Chi oggi insiste sul fatto che si “riesca” solo fuori dall’isola contribuisce pienamente alla costruzione del luogo comune secondo il quale non ci sarebbe nessuna possibilità di realizzazione nella nostra terra. Ma non solo: nelle parole di questo detto così spesso celebrato come una inscalfibile massima si nasconde quello che è davvero – per noi – il nodo centrale della questione. Cosa vuol dire, oggi, “riuscire”? 

É vero, 800.000 siciliani vivono all’estero, ma questo, come altri dati, non crediamo possa certo essere prova inconfutabile che chi esce “riesce”. Ed è proprio sul concetto di riuscire che secondo Si resti arrinesci bisognerebbe aprire un’ampia riflessione. Ci sono idee che sono state conficcate a forza nella nostra testa e, tra queste, quella che riuscire e realizzarsi voglia dire solo laurearsi, trovare un lavoro e mettere su famiglia è una delle più potenti e radicate. E’ proprio a partire da questo che vogliamo ribattere. I luoghi, i contesti in cui viviamo sembra che spariscano da ogni narrazione. Cancellato il legame con il territorio, cancellate con un colpo di spugna anche le relazioni sociali, gli affetti che ci lasciamo dietro. Cancellate come se non fossero, al contrario di quanto scritto nell’articolo, proprio coloro che lasciano la Sicilia a condurre, spesso, una vita d’isolamento.

Pensiamo che alle parole “riuscire” o “realizzarsi” vada dato un nuovo e diverso significato.

Oggi queste parole ci parlano di un modo di vivere privo di ogni senso di appartenenza e unicamente volto alla ricerca del successo personale. Ad ogni costo. In questa caccia alla “realizzazione” – che, tra le altre cose, è sempre più lontana, sempre più precaria – non c’è spazio per i legami, per la cura del proprio territorio, nessuno spazio per la solidarietà e l’impegno sociale e politico. 

 

Costruire insieme il coraggio di restare

Quindi sì, in tanti casi ci vuole coraggio per partire. Ma nei nostri territori è necessario costruire insieme il coraggio di restare. Restare nei processi collettivi, restare nei legami di comunità. Comunità che siano in grado di rimanere in piedi, potenziare e trasformare radicalmente un tessuto economico e sociale in crisi anche per colpa di un modello di sviluppo economico basato su sfruttamento e inquinamento – Milazzo ne è sicuramente un eccellente esempio – che a parte qualche migliaio di posti lavoro ha contribuito a generare le ragioni della fuga:  impoverimento, desertificazione e adesso anche rischio crisi occupazionale (il caso della Duferdofin citato nell’articolo è un esempio in questo senso). 

C’è tanto da fare è vero, soprattutto quando le istituzioni locali e nazionali sembrano quasi assecondare il fenomeno. Nonostante questo però, abbiamo l’obiettivo di realizzarci e di riuscire ponendo le condizioni per poter scegliere liberamente di partire, di restare e perché no, anche di tornare. Liberi da condizionamenti, pregiudizi, costrizioni economiche, sociali e culturali. E sappiamo di non essere i soli a pensarla così.

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