Territorio e Potere. Di Raul Zibechi

L’esperienza insegna che quando l’intensità di un ciclo di grandi proteste e sollevazioni, come quelle che alcuni mesi fa hanno infiammato l’Ecuador e il Cile, con il passare del tempo inevitabilmente rifluisce, le pratiche collettive e l’affermazione della dignità che diventa abitudine devono trovare la via per sedimentarsi nelle organizzazioni territoriali. È lì che continueranno a intaccare il sistema, in silenzio, anche quando i riflettori dei media saranno spenti. Nei territori possiamo far crescere il nostro potere di fare, quella potenza autonoma dalle istituzioni dello Stato che può dar vita alla costruzione di mondi nuovi

I movimenti antisistemici e le relazioni sociali non capitalistiche acquisiscono forza e si potenziano quando mettono radici in territori recuperati e sotto il controllo di soggetti collettivi. Una delle chiavi di questo potenziamento dei movimenti è che i territori ci danno la possibilità di costruire i nostri poteri, al di fuori del controllo delle istituzioni statali. Se le donne zapatiste possono dire che l’anno scorso non ci sono stati femminicidi nelle loro terre è perché si sono fatte forti (“hanno acquisito empowerment“, direbbero gli accademici), sono state capaci di difendersi attivando le nuove relazioni sociali che stanno costruendo. Qualcosa di simile si può dire di altri popoli in movimento, in particolare in América Latina.

In un certo senso, possiamo misurare la forza di un movimento in base al suo grado di “territorializzazione”; poiché gli altri modi di valutare le potenze collettive, come il numero di persone che si mobilitano, essendo una specie di barometro, non sono sufficienti per costruire qualcosa di nuovo, diverso e duraturo. Il territorio può essere la casa comune dove nascono e crescono altri mondi.

Le assemblee territoriali che si sono create in Cile nel fervore della ribellione popolare scoppiata il 18 ottobre sono la creazione più importante del popolo cileno, perché incarnano l’auto-organizzazione collettiva per resistere e creare nuove relazioni, al di fuori del mercato e dello Stato. Nello scorso novembre, a Santiago, c’erano 120 assemblee territoriali collegate a due coordinamenti, a seconda della zona della città, con forte radicamento tra gli abitanti mobilitati.

Il 18 gennaio scorso, alla riunione del Comitato di Coordinamento delle Assemblee Territoriali, le assemblee erano quasi 200 (ne sono state registrate 164, perché 24 venivano da fuori Santiago). Più di mille delegati hanno partecipato all’incontro, che è stato organizzato in 20 gruppi di lavoro per discutere quattro temi: la congiuntura costituente, l’elenco delle rivendicazioni (salute, istruzione, sicurezza sociale, alloggi, ecc.), i diritti umani e la costruzione del potere territoriale.

Il collettivo di educazione popolare Caracol è stato incaricato di promuovere dinamiche che facilitassero la circolazione della parola ed essa non restasse monopolizzata dai maschi militanti. Dalle sue analisi emerge che le assemblee territoriali sono l’aspetto organizzativo “più rilevante” della rivolta in corso, che ha generato “un clima di ingovernabilità mai visto nel periodo post-dittatura”, paragonabile solo ai giorni di protesta contro Pinochet tra il 1983 e il 1986.

Caracol definisce le assemblee come “potere popolare locale” nelle città, poiché esse risolvono i loro problemi più urgenti in modo “autonomo e collettivo”, senza perdere di vista l’orizzonte nazionale. Il collettivo ci ricorda poi che l’assemblea e l’educazione popolare sono le forme organizzative legittimate per il Cile che sta in basso, forme di democrazia diretta che sono alla base dei movimenti studenteschi, femministi, ambientali e delle proteste territoriali. Ecco perché rendono nuovamente attuali vecchie consegne come “tutto il potere alle assemblee” e “costruire due, tre… mille assemblee territoriali”.

All’apertura dell’incontro, tenuto presso la Scuola di Arti e Mestieri dell’Università di Santiago, è stato letto un comunicato del Coordinamento delle Assemblee Territoriali (CAT) che respinge la convocazione dall’alto dell’Assemblea costituente, mentre difende un processo per la creazione di una nuova Costituzione che parta dalle assemblee, dai cabildos e dai movimenti popolari.

Il comunicato spiega di voler rafforzare il soggetto popolare basandosi sul lavoro solidale e collettivo nei quartieri, sull’autoeducazione e sull’auto-formazione popolare, e difende “una democrazia diretta senza gerarchie“. Chiama a destituire la classe politica, il potere e le militanze tradizionali, mentre difende l’idea di vivere in comunità e tessere vincoli di fiducia nei territori. Questo è il nucleo della ribellione e il patrimonio politico-culturale più importante per le prossime generazioni di ribelli. Così come la sollevazione ecuadoriana ha dato vita a un Parlamento Indigeno e Popolare in cui si sono già coordinati 200 movimenti, l’esplosione cilena si condensa e acquisisce densità politica nella rete delle assemblee territoriali.

L’esperienza ci insegna che l’intensa azione moltitudinaria che si suole chiamare “ciclo di protesta”, si sgrana con il passare del tempo. Per far sì che le pratiche collettive non si diluiscano e perché “la dignità si faccia abitudine”, come sottolinea il Coordinamento, ciò che migliaia di persone hanno vissuto deve cristallizzarsi in queste organizzazioni territoriali, che continueranno a intaccare il sistema, in silenzio, quando i riflettori dei media saranno spenti.

C’è molto da discutere e c’è da continuare a imparare. Come creare la nostra agenda e non dipendere dall’agenda dell’alto; come sfuggire alla logica di riportare alle istituzioni o allo scenario macro quello che stiamo costruendo in basso e a sinistra. Queste assemblee sono il mondo nuovo possibile di cui dobbiamo prenderci cura affinché altri e altre lo facciano moltiplicare, quando possano e quando vogliano.

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