Aci Trezza: u pisci a mari

Aci Trezza: u pisci a mari

Sulla costa Jonica, in provincia di Catania, è allocato Aci Trezza, un antico villaggio di pescatori dove ogni anno durante le celebrazioni del patrono San Giovanni Battista, il 24 giugno, si rinnova la pittoresca tradizione settecentesca della pantomima del “u pisci a mari“.
Un rito propiziatorio, una parodia della pesca del pescespada che si svolgeva anticamente nello stretto di Messina e ancora oggi in forma minore continua, dove un marinaio (il rais) da un’alta antenna posta al centro di una barca spiava il pesce passante per lo stretto, mentre in un’altra barca quattro marinai pronti al remo, iniziavano a vogare a tutta forza allorché il grido della guardia ne annunciava la comparsa: il “rais” dirige il corso, pronunziando parole in dialetto, e il grosso pesce, venuto sotto tiro, viene inforcato furiosamente con la fiocina. Il pesce viene così ferito morendo ben presto e a quel punto viene issato su fra le grida festose di altre barche di curiosi e del rais che manda benedizioni, che muterebbero in maledizioni o imprecazioni se il colpo dovesse fallire.
Ad Acitrezza, teatro peraltro del romanzo verghiano “I Malavoglia”, questo rito assume tratti comici ed estremamente folkloristici che rendono tale appuntamento carico di un altissimo valore storico, artistico e culturale. La pesca del pesce spada rappresenta la continua lotta per la sopravvivenza fra l’uomo e la natura, in una terra in cui il pesce ha lo stesso valore del pane e il mare è, insieme a Dio, unico giudice della vita e della morte dei pescatori.
I più anziani raccontano, traendo spunto dai ricordi dei padri, che sino al 1870 il paese veniva addobbato con pennoni e bandiere e illuminato con lucerne di terracotta alimentate ad olio di oliva. Alla vigilia della festa, i trezzoti mangiavano le fave nuove perché ritenevano facessero scontare loro i peccati, le donne e i bambini, per adempiere ai voti fatti durante l’anno, indossavano (e ancora oggi lo fanno) dei capi colore rosso, e una cordicina gialla che circondava loro la vita.
Tra la enorme folla, u Raisi, colui che dirige la pesca, si avvia ballando sulla spiaggia, indossando calzoni corti, un cappellaccio di paglia, stracci rossi e gialli, e una fascia purpurea a tracolla. Con fare minaccioso muove una canna di foglie fresche sulla mano destra ed un ombrello sulla sinistra. Alcuni pescatori, indossanti stracci color rosso sangue, iniziano la cala della barca nello specchio d’acqua antistante lo scalo di alaggio. Si comincia la pesca “du pisci“, rappresentato da un esperto nuotatore che furtivamente si immerge in mare tra le numerose imbarcazioni colme di gente che osservano lo spettacolo da vicino. Il Raisi, dall’alto di uno scoglio, avvista il pesce, lancia segnali, urla frasi in gergo antico e incita i marinai a catturarlo. Dopo vari tentativi il pesce viene preso e levato a bordo, ma riesce a scappare. I pescatori imprecano contro la mala sorte, si accapigliano e il Raisi, disperato, si getta in acqua per inseguirlo. È a questo punto che inizia la vera lotta e questa volta la preda viene ferita e catturata mentre il mare si tinge di rosso. Due pescatori tengono saldamente il “pesce” per le braccia e le gambe e mentre minacciano di squartarlo questo si agita furiosamente e, a pochi metri dall’approdo, fugge definitivamente. Gli spettatori urlano, i pescatori in preda allo sconforto capovolgono la barca finendo in mare e, con il tuffo in mare degli spettatori, si chiude l’ennesima rappresentazione teatralizzata di questo antico rito specchio di un popolo che nella fatica del lavoro in mare come nei campi ha fondato la propria sussistenza instaurando con le forze naturali della propria terra un rapporto unico intriso di credenze e magie che a noi ancora oggi giunge grazie a momenti di questo genere.

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