Il fallimento della gestione carceraria si misura anche dalla quantità di morti che produce

Il fallimento della gestione carceraria si misura anche dalla quantità di morti che produce

Ripubblichiamo una nota congiunta scritta dai tre sportelli territoriali per la tutela dei detenuti e delle loro famiglie Yairaiha onlus di Catania, Lentini e Palermo

1240 suicidi dal 2000 al 2020 dentro le carceri siciliane. Oltre 60 suicidi l’anno. Più di 1 alla settimana. Più di 2 al giorno tra suicidi e morti “naturali”. I giorni 3 e 9 aprile a Catania, Piazza Lanza, due detenuti si suicidano. Il giorno 6 aprile a Palermo, Ucciardone un altro detenuto si suicida. Per ultimo il suicidio di ieri: una giovane donna si impicca ad un albero durante l’ora d’aria nel carcere di Barcellona Pozza di Gotto. 

Dall’inizio dell’anno nelle carceri siciliane se ne sono suicidati 6, senza contare i tentati suicidi e le migliaia di detenuti che si “tagliano” per protesta o per disperazione.

L’inasprimento delle condizioni di detenzione causato da ciò che hanno chiamato emergenza pandemica si è drammaticamente aggiunto alle già catastrofiche condizioni di sovraffollamento, di mancanza di attività formative e di lavoro e cioè tutte quelle attività che sulla carta dovrebbero servire al cosiddetto “reinserimento” sociale. Un inasprimento che pesa non solamente sui detenuti ma anche sulle loro famiglie già alle prese con tutte le problematiche derivanti dall’avere un congiunto in carcere spesso lontano in dispregio alle stesse leggi che prevedono la vicinanza ai luoghi di residenza delle famiglie.

Il fallimento della gestione carceraria si misura anche dalla quantità di morti che produce.

Perché fallimento?

Con l’avvento dell’era moderna, la società occidentale ha ritenuto che il carcere – e quindi  la pena privativa della libertà – avesse la capacità di dissuadere dal delinquere e di indurre i condannati a non recidivare. 

Tutte le aspettative sono state disattese: il carcere non ha prodotto “sicurezza” e nel suo operare ha violato sistematicamente sia i diritti costituzionali , come ad esempio avviene con le forme differenziate di trattamento penitenziario o con l’uso dell’ergastolo ostativo, sia i diritti umani con la tortura ad esempio del il 41bis, che rendono il carcere una misura puramente punitiva/vendicativa. 

Riguardo la “sicurezza sociale” – che dovrebbe il carcere garantire – le statistiche mostrano esattamente il contrario. In poche parole il carcere diventa fabbrica di delitti. 

Esiste poi un ennesimo fattore rilevante: l’insieme di classe, etnia e genere che incidono pesantemente sulla realtà carceraria. Povertà, etnia e detenzione sono legati a doppio filo, non è affatto un caso che il 70% dei detenuti provenga dalle regioni più povere e che il restante sia quasi per la totalità di altri paesi.

Le detenute, infine, risentono da sempre di una doppia pena che vede, accanto alla reclusione punitiva, l’assenza di spazi a loro dedicati e di personale idoneo alle loro necessità. Solo il 4% della popolazione detenuta è donna e così, nella stragrande maggioranza dei casi, le risorse economiche vengono dirottate agli istituti maschili. 

Vivere in strutture disegnate per gli uomini significa non poter contare su un servizio di ginecologia, di ostetricia o, spesso, nemmeno su un bidet all’interno delle celle. Non in tutte le strutture che ospitano anche i figli delle detenute è previsto un pediatra. 

E’ per tutto questo che già da dieci anni persino alcuni Garanti dei detenuti parlano della necessità di abolire il carcere.

Abolire il carcere

Il sovraffollamento carcerario, resosi palese ai più grazie alla pandemia, ha svelato quel fatto vergognoso che non si può più occultare, rendendo evidente quello che teoricamente lo è sempre stato, ovvero che le carceri sono luoghi di distruzione di corpi umani. Sono luoghi di annientamento, più prossimi a campo di sterminio che a campi di concentramento. Questa è la realtà. Si guardino i tassi di suicidio, i tassi di autolesionismo, l’infettività che il carcere comporta. Abbiamo oggi i dati per misurare l’impatto del carcere sui diritti fondamentali della persona, a partire dal diritto alla vita. 

Liberarsi dalla necessità del carcere perché pena inutile e crudele non comporta affatto rinunciare a tutelare il bene pubblico. Pensare a misure alternative è ormai indispensabile. 

Da dove partire?

Iniziamo ad usare i fondi per la rieducazione e il reinserimento piuttosto che infliggere detenzione, visto che su 3 miliardi di spesa solo un sesto di questa cifra è usato in tal senso; parliamo in pratica 0,35 centesimi in media al giorno per detenuto/a.

Liberarsi dalla “necessità” del carcere non è oggi solo una questione ideologica, ma la scelta più logica e funzionale per la società tutta.

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