Saviano, Pif e Gratteri. E il Sud

Saviano, Pif e Gratteri. E il Sud

lanfranco caminiti

All’ultimo BookCity di Milano, a novembre scorso, Roberto Saviano ha presentato il suo nuovo libro, La paranza dei bambini, appena in classifica e già un successo, insieme a Chiara Gamberale e Pif. Credo fosse la prima volta che Saviano e Pif stessero insieme in un evento mondano.
Novembre 2016 è stato un mese importante per Pif. Il suo ritorno al cinema, con il nuovo film In guerra per amore, uscito nelle sale a fine ottobre, è volato in pochi giorni al Box Office al secondo posto in classifica – unico film italiano nella Top 10 degli incassi – nella prima settimana di novembre. E la serie televisiva tratta dal suo primo acclamato film del 2014, La mafia uccide solo d’estate, ha avuto inizio sulla rete ammiraglia della Rai il 21 novembre, con un ottimo dato di ascolti, proseguito nelle puntate successive.
Saviano e Pif sono due autori di successo che utilizzano due registri espressivi – più drammatico l’uno, più sentimentale e ironico l’altro – e due linguaggi narrativi – la scrittura l’uno, le immagini l’altro – per raccontare la criminalità organizzata in Campania e Sicilia, a Napoli e Palermo. Anzi, il loro successo presso il pubblico è dovuto al modo loro del racconto della criminalità organizzata, la camorra l’uno, la mafia l’altro. I loro caratteri sono opposti. Saviano s’atteggia a Saviano, parla di sé in terza persona come faceva Maradona, e questo lo rende antipatico, fa il tuttologo e pontifica su tutto – l’ultima bagarre verbale con il sindaco di Napoli de Magistris non è stata proprio edificante – e riesce a far rientrare ogni avvenimento del mondo, in qualche modo anche suggestivo se non convincente, nel suo universo camorristico: la sua è una Gomorrogonia. Tanto quanto Pif invece fa troppo il simpatico, il ragazzo alla mano a cui la madre affida tranquillamente la figlia e che le nonne adorano, un tipo molto semplice e che sembra superficiale, ma ti chiedi sempre se lo sia davvero. Ma questi caratteri poco e nulla contano quando si parla della loro materia narrativa e del loro stile.
Entrambi sono riusciti a rendere spettacolare il racconto della criminalità. Saviano non ha inventato lo stile del reportage narrativo ma ha saputo dargli forma e sostanza con una scrittura densa e stratificata (e con una conoscenza minuziosa di dati e informazioni dei processi giudiziari). Mi pare abbia subito dei processi per plagio o qualcosa di simile, e la cosa sia stata riconosciuta in sentenze, perché nei suoi libri si trovavano interi paragrafi già pubblicati da inchieste giornalistiche – ma non credo che la questione cambi e che importi se il plagio costituisca più o meno dell’uno per cento del libro: Saviano ha estetizzato, con uno stile assolutamente personale anche informazioni già rilevate da altri. Gomorra è stato prima un libro dalle vendite fenomenali, poi un film pluripremiato in Italia e all’estero, e poi una serie televisiva che è diventata un cult – con scene e frasi e personaggi che ormai sono proverbiali non solo tra i suoi fan più accaniti o nei social dove impazzano. La saga dei Savastano si è come autonomizzata dal racconto originale, delineandosi come una tragedia del conflitto tra padri e figli, nella successione del dominio, tra clan e alleanze e regole e vendette che s’infrangono o si codificano a seconda delle convenienze. Un fenomeno questo, già accaduto con Romanzo criminale, ma che qui sta avendo una sorta di apoteosi. E il doppio passo di Pif – cinema prima, poi serie televisiva – sembra riprendere questo percorso. D’altronde, La paranza dei bambini è un libro di fiction, una storia inventata, anche se ci è capitato di leggere nelle cronache episodi di diffusione di armi micidiali e comportamenti “camorristici” tra ragazzi. Il confine tra realtà e finzione è, nella scrittura di Saviano, qualcosa che si oltrepassa facilmente, e in entrambi i sensi di marcia. La differenza – è una questione di tempi, certo, ma anche di sensibilità sociale – con altri fenomeni televisivi di storie di mafia come La Piovra (una serie lunghissima, dieci anni, con punte di spettatori da Sanremo, e che venne venduta dalla Rai in tutto il mondo, forse per la prima volta in quelle misure per un prodotto di fiction italiano) è evidente: La Piovra, benché potessero rintracciarsi nelle sceneggiature di de Concini Rulli, Petraglia, decine di riferimenti reali, era con ogni evidenza un racconto di finzione, la realtà era probabilmente anche peggio. Nelle storie di Saviano, ti immagini che la realtà si possa adattare alla finzione: se non è già accaduto, potrebbe proprio accadere come lui lo racconta. Come se la camorra potesse savianizzarsi.
Anche dalla Calabria si va affermando un racconto del crimine organizzato – completando così, con la ndrangheta, lo scenario delle mafie. A dare l’avvio al fenomeno è stato Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, un’autorità insomma, con il giornalista Antonio Nicaso. Una produzione implacabile di bestseller a scadenza quasi annuale: dal primo Fratelli di sangue, del 2006, seguito da altrettanti titoli da vendite strabilianti, Il grande inganno: i falsi valori della ndrangheta (2007), La malapianta (2011), La mafia fa schifo: lettere di ragazzi da un paese che non si rassegna (2011), La giustizia è una cosa seria (2012), Dire e non dire: i dieci comandamenti della ndrangheta nelle parole degli affiliati (2012), Acqua santissima: la Chiesa e la ‘ndrangheta: storia di potere, silenzi e assoluzioni (2013), Oro bianco (2016), Padrini e padroni: come la ndrangheta è diventata classe dirigente (2016). Come si vede, una sorta di mappatura a tutto tondo dei confini della ndrangheta, vista ormai per quel che è: un fenomeno globale, con radici mai spiantate e una enorme capacità di insinuazione in ogni territorio della vita quotidiana calabrese fino ai suoi mutamenti di pelle, alle sue trasformazioni da organizzazione minore e marginale a spina dorsale della criminalità mondiale.
Gratteri e Nicaso – magistrato l’uno, docente universitario e giornalista l’altro – ai propri mestieri devono uno stile più didascalico, mettendo insieme e snocciolando storie e fatti accaduti, senza per questo rendere meno avvincente il loro racconto dalle fosche tinte. Più espressivo, emozionante, coinvolgente, è il bel film Anime nere, del 2014 di Francesco Munzi, sull’implosione di una famiglia mafiosa dell’Aspromonte con i suoi buoni ganci nella finanza di Milano, tratto dall’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, che ha sbaragliato ai premi Donatello di quell’anno. E a novembre dello scorso anno – mese intenso per lo spettacolo del crimine – è iniziata la prima serie televisiva sulla ndrangheta, Solo, su Canale 5. La Calabria, insomma, si è messa al passo: nei romanzi di Carmine Abate come in quelli di Mimmo Gangemi, la ndrangheta, anche quando non è protagonista spettacolare, è presenza oscura e inquietante e pervasiva che deforma il territorio.

Il crimine come spettacolo.
La spettacolarizzazione del crimine non è certo una novità o uno scandalo – basterebbe pensare a quella storia colossale che è Il Padrino di Francis Coppola. Qualche anno fa ci fu l’esordio narrativo di una giovane scrittrice americana che raccontava come durante gli anni di formazione al college fosse stato centrale la visione ripetuta ossessivamente delle immagini del Padrino. Che riassumeva nella celebre battuta che Clemenza fa a Rocco Lampone che ha appena ammazzato a freddo in automobile Paulie Gatto, facendogli saltare le cervella: «Leave the gun. Take the cannoli / Lascia la pistola, prendi i cannoli»: sta, la guantiera dei cannoli, sul sedile posteriore, glieli ha promessi alla moglie per il pranzo della domenica, e questa cosa sacra è. Tutto ciò che è buono per la famiglia è il Bene, tutto ciò che è male per la famiglia è il Male: una morale certa e rassicurante. In realtà, è il racconto del Male che ci attrae, sia nella battaglia che il Bene combatte contro di esso – vincendo, perdendo, ricominciando, dando insomma un filo di speranza – sia nel mostrarne tutto l’orrore nella sua assoluta volontà di conquista del mondo, e nella sua insita autodistruzione. A volte sono i personaggi che ci intrigano, con le loro doppiezze, la loro determinazione, le sfaccettature dei loro caratteri – siano capi mafiosi o poliziotti coraggiosi – a volte sono le trame fitte di inganni, tradimenti, guerre e sterminio per il predominio su un territorio, insomma un po’ la trama del mondo.
Quello che è singolare è che non c’è mai stata un’epoca storica, nel Sud, in cui il racconto di mafia sia stato così ossessivo e predominante, unico. Come non ci fosse nient’altro. Come potesse essere rappresentazione univoca del Meridione – eppure a nessuno verrebbe in mente di rappresentarsi l’America attraverso Il Padrino. Sembra una sorta di contrappasso morale per tutti quei decenni in cui in Sicilia parlare di mafia era un tabù, in cui politici, preti e giornalisti si affannavano a spiegare che «la maffia non esiste». Forse, una volta la mafia era meno ossessiva e predominante nel Sud? Ci pare, questa, un’ipotesi remota.

Sociologie e narrazioni.
«In Palermo, se si va a ricercare il primo fondamento dell’influenza di chi ha un potere reale, lo si trova quasi inevitabilmente nel fatto o nella fama che quella tale persona ha possibilità, direttamente o per mezzo di terzi, di usare violenza. Né potrebbe essere altrimenti: una volta che esiste siffatto stato di relazioni sociali a mano armata, chi vuol godere una certa influenza o, talvolta, solamente esser rispettato nell’onore e negli averi, conviene che abbia a suo comando una forza armata di una certa importanza e faccia sapere che l’ha. Difatti, si sente raccontare che la tale o tal’altra persona influente in politica o nelle amministrazioni locali, ha a suo servizio il tale o tal altro capo mafia di Palermo o di un paese vicino, e per mezzo suo, una parte di quella popolazione di facinorosi per mestiere o per occasione, che infestano la città e i suoi dintorni; il che significa che da un lato egli potrà giovarsi del terrore ispirato da quella gente; che saranno al bisogno usati a suo vantaggio i mezzi i quali già servirono a spargere quel terrore; e che dall’altro, egli, in caso di bisogno, aiuterà e proteggerà questi suoi clienti».
Sono queste, poche righe tratte da La Sicilia nel 1876 – il “libro di viaggio” di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino che raccontava le condizioni dell’isola in quell’anno. I due furono indecisi, all’inizio, su quale meta scegliere per il loro viaggio di inchiesta, e sembravano propendere per la Romagna, attraversata anch’essa da rivolte contadine e brigantaggio. Poi, però, in Romagna le acque si chetarono, mentre la Sicilia ribolliva ancora. L’inchiesta, che utilizza una metodologia sociologica, si legge anche come un vero e proprio romanzo, tante sono le descrizioni dei paesaggi, le considerazioni antropologiche, le valutazioni su personaggi e situazioni. Franchetti e Sonnino, pisano l’uno, livornese l’altro, appartenevano a un ridotto ma combattivo gruppo di giovani intellettuali risorgimentali e positivisti che si interessavano delle questioni dell’agricoltura e delle condizioni dei contadini, legati a personaggi di notevole spessore culturale come Pasquale Villari e Giustino Fortunato, convinti meridionalisti (con Fortunato, Franchetti fonderà successivamente l’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno). La “questione siciliana” – le rivolte nelle campagne e nelle città, l’opposizione a un’unità del paese che era stata sostenuta e si era rivelata un nuovo inganno, la prepotenza della criminalità spesso usata nelle lotte intestine elettorali – era, allora, al centro delle attenzioni nazionali. Franchetti e Sonnino dopo la pubblicazione del libro con la loro inchiesta (1877), decisero di fondare una rivista dove approfondire le tematiche relative alle campagne, «Rassegna settimanale». Diventeranno poi parlamentari e rappresentanti della Destra storica, assumendo via via importanti incarichi di governo.
A «Rassegna settimanale» guardò con estremo interesse Giovanni Verga (poi, arrivò a collaborarci), che si era intanto trasferito a Milano, dopo Firenze, e cercava “una maniera” di narrazione diversa da quella fino a quel momento usata per le sue prime storie tardo-romantiche. Una delle prime novelle del “nuovo corso” verghiano, che poi rientreranno nella raccolta Vita dei campi, e cioè Rosso Malpelo, ragazzino che lavora come cavatore nella stessa miniera di sabbia dove il padre troverà la morte, e d’altronde lui stesso, sembra una riscrittura della descrizione di Franchetti e Sonnino del lavoro dei minori nelle zolfare: «I fanciulli lavorano sotto terra da 8 a 10 ore al giorno, dovendo fare un determinato numero di viaggi, ossia trasportare un dato numero di carichi dalla galleria di escavazione fino alla basterella che vien formata all’aria aperta. I ragazzi impiegati all’aria aperta lavorano 11 a 12 ore. Il carico varia secondo l’età e la forza del ragazzo, ma è sempre molto superiore a quanto possa portare una creatura di tenera età, senza grave danno alla salute, e senza pericolo di storpiarsi. I più piccoli portano sulle spalle, incredibile a dirsi, un peso di 25 a 30 chili; e quelli di sedici a diciotto anni fino a 70 e 80 chili […] La vista dei fanciulli di tenera età, curvi e ansanti sotto i carichi di minerale, muoverebbe a pietà, anzi all’ira, perfino l’animo del più sviscerato adoratore delle armonie economiche. Vedemmo una schiera di questi carusi che usciva dalla bocca di una galleria dove la temperatura era caldissima; passava i 40° Réaumur. Nudi affatto, grondando sudore, e contratti sotto i gravissimi pesi che portavano, dopo essersi arrampicati su, in quella temperatura caldissima, per una salita di un centinaio di metri sotto terra, quei corpicini stanchi ed estenuati uscivano all’aria aperta, dove dovevano percorrere un’altra cinquantina di metri, esposti a un vento ghiaccio. Altre schiere di fanciulli vedemmo che lavoravano all’aria aperta trasportando il minerale dalla basterella al calcarone. Là dei lavoranti empivano le ceste e le caricavano sui ragazzi, che correndo le traevano alla bocca del calcarone, dove un altro operaio li sorvegliava, gridando questo, spingendo quello, dando ogni tanto una sferzata a chi si muoveva più lento» [Franchetti-Sonnino, La Sicilia nel 1876, capitolo supplementare – Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane]. Scriverà Verga: «Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. […] Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all’infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente» [Verga, Rosso Malpelo].
La novella fu pubblicata nel 1878 sul quotidiano «Il Fanfulla», e poi nel 1880 in un opuscolo con il soprattitolo di “scene popolari” in una collana della «Rassegna delle Società Operaie di Mutuo Soccorso», un periodico educativo popolare.
Nel 1881 apparve sul numero di gennaio della «Nuova Antologia», il periodico di Firenze di lettere, scienze e arti, l’episodio tratto da I Malavoglia che narra della tempesta con il titolo Poveri pescatori e, nello stesso anno, verrà pubblicato da Treves il romanzo. I Malavoglia avrebbe dovuto dare l’avvio al Ciclo dei Vinti, che Verga non porterà mai a termine. La poetica di Verga (il verismo) è ormai sistematizzata; ne scriverà in una lettera all’amico Farina: «Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico – un documento umano, come dicono oggi – interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico». Verga – «lo scrupolo scientifico, le parole semplici e pittoresche, il documento umano e storico, il fatto nudo e schietto raccolto pei viottoli dei campi » – sembra aver fatto proprio, virandolo in uno stile della narrazione, il positivismo. Anche la sua filosofia del mondo («l’ideale dell’ostrica»: i poveri saranno al sicuro finché resteranno attaccati alla loro miserevole vita senza smanie di cambiamento) è ormai compiuta.
Si osserva, poi, un’assonanza di considerazioni tra l’Inchiesta di Franchetti-Sonnino e la narrazione di Verga, a proposito del rapporto tra società e autorità pubblica, lo Stato: «Essi non si considerano come un unico corpo sociale sottoposto uniformemente a legge comune, uguale per tutti e inflessibile, ma come tanti gruppi di persone formati e mantenuti da legami personali […] il Governo e tutto ciò che lo rappresenta o che è da lui rappresentato, è in molti luoghi profondamente disprezzato» [Franchetti-Sonnino, La Sicilia]. E Verga: «lo zio Cola tornava a parlare del dazio del sale che volevano mettere, e allora le acciughe potevano starsene tranquille, senza spaventarsi più delle ruote dei vapori, che nessuno sarebbe più andato a pescarle. – E ne hanno inventata un’altra! aggiunse mastro Turi il calafato, di mettere anche il dazio sulla pece» [Verga, I Malavoglia, pag. 90].
La forbice tra paese reale e paese “legale” – un Regno che manda a morire contadini e pescatori in guerre lontane [contro «nemici che nessuno sapeva bene nemmeno chi fossero», Verga, I Malavoglia, pag. 131] si va allargando.
Due tracce di analisi. La prima: al di là dello strumento espressivo e descrittivo, l’inchiesta sociologica o la narrazione letteraria – il “verismo” sembra il tratto continuo e comune, e il reportage narrativo il suo stile – sta nello spirito del tempo della società italiana della seconda metà dell’Ottocento il convincimento che esista un rapporto tra “questione criminale” (le mafie) e “questione sociale” (la condizione delle campagne e la povertà delle genti meridionali); la seconda: nonostante i “travasi” che dipingono gli scenari, si mantiene sempre distinta la “questione criminale” dalla “questione sociale”, e quest’ultima – la condizione delle campagne e la povertà delle genti meridionali – è considerata la “vera” questione siciliana e meridionale.
Lo stesso anno del viaggio in Sicilia di Franchetti e Sonnino, il parlamento italiano vara una Commissione d’inchiesta sulla Sicilia. C’è il primo governo della Sinistra storica, in realtà un Grande Centro moderato guidato da Depretis dove affluiscono i voti dalla Sinistra e dalla Destra. Per la Sicilia, si erano varate leggi eccezionali che sospendevano ogni diritto, e queste disposizioni, violentemente contestate nell’isola, avevano avuto riflessi dentro il parlamento – dove non solo c’era stata l’opposizione di una parte della Sinistra ma erano rimasti perplessi molti liberali e uomini della Destra (il marchese Di Rudinì, che nella rivolta di Palermo del 1866 aveva quasi bombardato la città, si distinse con il motto: «Meglio un ricatto in più che una libertà in meno»). Il parlamento aveva deciso di istituire una Giunta parlamentare d’inchiesta sulla Sicilia, mandandovi nove membri, affinché ne ricavassero una Relazione che facesse luce su quanto vi stava accadendo.
Franchetti e Sonnino ne sono a conoscenza, ma la cosa non li ferma. Sanno che si tratterà di un lavoro superficiale, basato su fonti “pubbliche” e ossessionato dalla pubblicità, mentre a loro sta piuttosto a cuore “scoprire” la verità. Viaggeranno armati di tutto punto – carabine e pistolone – ma non subiranno mai agguati, pur traversando luoghi impervi e abbandonati, anzi saranno fermati solo una volta dai militi dell’esercito che li scambieranno per briganti. I risultati dei due lavori – La Sicilia di Franchetti e Sonnino, e l’Inchiesta parlamentare, completata a luglio e pubblicata a settembre 1876 – possono sovrapporsi per alcune considerazioni. Su un punto, in particolare, però i due lavori si distanziano.
«Si può anche concedere che non vi sia un nesso diretto fra i bassi salari o i durissimi patti agricoli col brigantaggio e con la mafia, perché le loro sedi preferite sono le zone più prosperose dell’Isola e perché molti dei mali che possono affliggere il contadino siciliano si riscontrano in altre provincie del continente, ma è chiaro che bassi salari e durissimi patti agricoli concorrono a mantenere i contadini in uno stato di pietosa miseria, e che se non il brigantaggio, la misteriosa mafia interviene con le sue violenze ai loro danni quando s’agitano individualmente o collettivamente per migliorare le proprie condizioni. Inoltre la questione sociale può esistere anche indipendentemente da tutto ciò: essa ha radice nella cattiva distribuzione della ricchezza, e negli ostacoli, quali l’oppressione tributaria e l’insufficienza dei servizi pubblici più necessari, con cui una o più classi sociali impediscono ad un’altra di acquistare più largamente, ma si concreta anche in un vago malcontento per il bisogno insoddisfatto di giustizia e di carità in ogni esplicazione della vita; si aderge quindi a valore e significazione morale». E queste sono le considerazioni polemiche nel lavoro di Franchetti e Sonnino [Franchetti-Sonnino, La Sicilia nel 1876, Prefazione] rispetto all’Inchiesta parlamentare che sembrava più che altro preoccupata di criminalizzare il malcontento sociale, come fosse ispirato dalle mafie. La questione sociale è la vera questione della Sicilia: «la questione sociale ha radice nella cattiva distribuzione della ricchezza».

L’abisso.
La rivoluzione dei Fasci del 1896 manderà a gambe all’aria tutto questo. Verga se ne ritrarrà inorridito, Franchetti e Sonnino, adesso l’uno deputato, l’altro ministro delle Finanze – che pure avevano auspicato la costituzione di associazioni operaie e di Società di mutuo soccorso e la distribuzione di terre per sanare la piaga delle miserie delle campagne – vedono che le cose sono ormai sfuggite di mano e che qualsiasi riforma, peraltro sempre differita, non serve più, e la Sinistra storica, e cioè il governo di Crispi, manderà l’esercito per reprimere nel sangue (confessò, Crispi, a Farini: «Chi l’avesse detto che sarei stato io il Del Carretto della libertà» – riferendosi all’odioso ministro borbonico della polizia, ex carbonaro, che aveva represso duramente i moti di rivolta in Sicilia dopo l’epidemia di colera del 1837).
Il “racconto” della Sicilia è ormai altro da quello della Sicilia nel 1876 e da quello dell’Inchiesta parlamentare. I contadini, i braccianti, i mezzadri, i solfatari e i cavatori delle miniere, ma anche maestri e impiegati, e donne, tante donne, si sono andati organizzando sotto le insegne rosse dei Fasci. Ma nessuno narrerà di loro. Solo Pirandello, quindici anni più tardi, scriverà I vecchi e i giovani, quando i giochi sono ormai fatti e ogni cosa rimossa.
Il “racconto di colore” – i briganti a cavallo che scorrazzano per l’isola, e sequestrano baroni e principi imponendo le loro gabelle, e irrompono nei paesi pur vigilati dai bersaglieri per compiere le loro vendette e talvolta compensano la loro ferocia con gesti di audacia, coraggio e giustizia – non “tira” più. Sono i Fasci che hanno occupato le terre e l’immaginario collettivo.
Ne saranno sradicati con la ferocia della repressione del governo, e dalle terre e dall’immaginario. Si entra così nella modernità del Novecento e nell’Italia unita.
Nella critica letteraria, la “mise en abyme” indica un particolare tipo di “storia nella storia”, in cui la storia raccontata può essere usata per riassumere o racchiudere alcuni aspetti della storia che la incornicia. È questo che va succedendo, la “storia” delle mafie è usata per riassumere la “storia” del Sud? Il racconto di mafia s’è mangiato il Sud e ogni altro suo possibile racconto?
Qui non si tratta certo di mettere in discussione l’odiosità delle mafie, non fosse altro perché, storicamente, esse sono state sempre dalla parte dei potenti e contro ogni tentativo di organizzazione e riscossa dei soggetti sociali. Ho poche competenze per poter fare affermazioni convincenti, ma è accaduto, anche, storicamente, che quanto più un percorso di rinnovamento sociale si radicasse, tanto più la mentalità mafiosa – l’ineluttabilità del mondo, la subordinazione a un destino prescritto, l’imperscrutabile potere dei ricchi – si ritraesse. È accaduto anche che il principio dell’agire mafioso – l’uso della forza (non le lupare, le bombe e i massacri, certo) come solo metodo di affermazione, l’associarsi stretto in vincoli insolubili, la demarcazione tra i propri interessi, la “cosa nostra”, e il “blocco di potere” politico-istituzionale-finanziario, la “cosa loro” –, che è poi uno sguardo crudo e crudele sul mondo, sia stato declinato in forme progressive.
Le mafie sono un partito politico di interessi che agisce dentro l’organizzazione dell’economia, e come tale può essere stato usato da altri partiti o avere usato altri partiti. Il suo radicamento sta tutto nelle forme dell’economia, e nelle distorsioni che qualunque forma di economia ha lasciato sopravvivere o riprodurre. Organizza l’offerta di merci e servizi reperibili e non reperibili sul mercato, tentando di diventare monopolio o costituendo oligopoli, e interviene sulla domanda esercitando varie forme di pressione sui corpi intermedi della società. Da questo punto di vista, nulla è cambiato, da quando si esercitava nei latifondi aristocratici al controllo attuale del traffico globale della droga, della prostituzione o della schiavitù. D’altronde, non capiremmo altrimenti perché – come diceva Sciascia – la linea della palma è avanzata.
La sua capacità di penetrazione e radicamento nell’immaginario sociale, e quindi nei comportamenti, sta tutta nell’assenza di un collante sociale, di un’etica di riferimento, di una pratica riconoscibile come piena di senso – dall’alto e dal basso. Lo “scandalo emotivo” di ragazzini che vogliono arricchirsi in fretta e pensano che solo l’uso delle armi darà loro legittimità e gettano nell’impresa tutto ciò che hanno, la loro vita, sapendo che è nulla e vale niente – non dovrebbe stupirci poi più di tanto, nella società attuale.
Le radici del male oscuro che attanaglia la Sicilia e il Sud stanno nella questione sociale. Di sempre.

febbraio 2017

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