Lo Statuto, l’autonomismo e i furti dello Stato italiano

Lo Statuto, l’autonomismo e i furti dello Stato italiano

Chiunque si interessi alle vicende politiche legate alla Sicilia si sarà sicuramente trovato, almeno una volta o due, a intavolare una discussione sul tema dell’Autonomia. La mancata correlazione tra quanto previsto dallo Statuto Siciliano e quanto invece – nella realtà dei fatti – viene applicato, è ormai storia nota. Particolarmente centrale in questo dibattito è la mancata esecuzione degli articoli dello Statuto in materia finanziaria. Di tanto in tanto il tema torna a galla per bocca di qualche politicante o in qualche timido titoletto di giornale, sempre in maniera confusa e distorta.

Per i siciliani curiosi di capirne di più sulla storia finanziaria della loro Isola, vi avvertiamo che il cammino è lungo e frastagliato. Tentando di ripercorrere le vicende legate alla (mancata) applicazione dello Statuto in materia finanziaria ci si ritrova infatti davanti a un intricatissimo garbuglio burocratico di difficile comprensione. Per i più avventurosi abbiamo tentato di ricostruire questo tortuoso percorso nella maniera più agevole possibile.

 

Dovute premesse

A seguito degli anni che caratterizzarono il periodo di maggior tensione tra l’allora Regno d’Italia e il movimento indipendentista siciliano, si arrivò alla “concessione” per la Sicilia dell’Autonomia e alla conseguente emanazione dello Statuto, che avrebbe dovuto regolare i rapporti tra le due parti. Per comprendere come si è evoluto il legame economico tra i due enti è necessario innanzitutto guardare ad esso con la consapevolezza che l’Autonomia altro non è stata che uno strumento per sedare il separatismo siciliano. Rileggendo la storia sotto questa prospettiva risulta quasi logico che, con l’indebolirsi del movimento separatista, lo Stato Italiano non abbia incentivato il processo di devoluzione di competenze e finanze previsto dallo Statuto. In assenza di una classe politica siciliana che pretendesse l’applicazione di quanto lì stabilito, non sarebbe di certo stata l’Italia a farlo.

Enrico La Loggia – uno dei padri dello Statuto – quando qualcuno lamentava l’«evidente spropositata autonomia» che il testo prevedeva, rispondeva che lui aveva scritto e chiesto 100, toccava a Roma dare 50. Roma ha svolto egregiamente i suoi compiti per casa, cedendo forse 10 di quei 100 richiesti.

 

Cosa dice lo Statuto?

Lo Statuto Speciale della Regione Siciliana fu emanato con regio decreto il 15 maggio del 1946, prima ancora dell’approvazione della Costituzione della Repubblica Italiana.

Agli artt. 36 e 37 sono esplicitate le entrate con cui la Regione dovrà far fronte all’esercizio delle sue funzioni. Secondo l’art. 36, alla Regione Siciliana spetta per Statuto l’integrale attribuzione di ogni tributo deliberato dalla medesima, mentre sono riservate allo Stato le imposte di produzione (ora accise) e le entrate dei monopoli dei tabacchi e del lotto. L’art. 37 specifica come nelle entrate spettanti alla Regione siano comprese anche le imposte relative al reddito prodotto da quelle imprese aventi stabilimenti e impianti siti in territorio siciliano ma la cui sede legale si trova al di fuori della regione.
L’art.38 istituiva inoltre un contributo di solidarietà a favore della Regione che lo Stato avrebbe dovuto versare annualmente per compensare il minore ammontare dei redditi di lavoro in confronto della media nazionale.
Con
l’art. 43 veniva inoltre istituita una Commissione Paritetica Stato-Regione incaricata di procedere al trasferimento delle competenze a lei spettanti mediante l’emanazione di specifiche norme di attuazione. Solo attraverso l’emanazione di queste norme gli artt. dello Statuto avrebbero dunque preso effettività.

Cronaca di un furto legalizzato

Per comprendere come mai nel corso degli anni lo Stato si è arrogato il diritto di non devolvere i tributi spettanti alla Regione, bisogna citare le norme di attuazione in materia finanziaria emanate con Decreto del P.R. n. 1074 del 1965. L’art. 2 delle stesse specifica che «spettano alla Regione Siciliana, oltre le entrate tributarie da essa direttamente deliberate, tutte le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio».

La locuzione «entrate erariali riscosse» è alla base del contenzioso tra Stato e Regione. Infatti, in base a questo termine, lo Stato non avrebbe avuto motivo di trasferire alla Regione le imposte maturate nel territorio regionale ma riscosse altrove. E ciò nonostante l’art. 4 delle stesse norme di attuazione specificasse che «nelle entrate spettanti alla Regione sono comprese anche quelle che, sebbene relative a fattispecie tributarie maturate nell’ambito regionale, affluiscono, per esigenze amministrative, ad uffici finanziari situati fuori del territorio della Regione».

Sull’interpretazione di tali articoli si è espressa più volte la Corte Costituzionale, dando inizialmente torto alla Regione e restringendo quindi l’ambito di applicazione del suddetto art. 4, con la conseguenza di una forte limitazione delle entrate trasferite alla Regione.        

Per comprendere la giurisprudenza della Corte è necessario aggiungere che, al mancato coordinamento tra quanto scritto degli artt. 2 e 4 della normativa di attuazione del 1965, si aggiunge il problema dell’ulteriore mancato coordinamento tra lo Statuto e il sistema tributario nazionale, soprattutto a seguito della riforma tributaria del 1971, che cambiò radicalmente l’impianto normativo statale in materia di tributi. A seguito di tale riforma, nella regolamentazione sulla riscossione dei tributi, al criterio della capacità fiscale, che fa riferimento al reddito prodotto sul territorio, si è sostituito il criterio della territorialità della riscossione, che fa riferimento al luogo in cui avviene l’operazione contabile della riscossione. Inoltre tale riforma, sconvolgendo il precedente sistema tributario, ha determinato incertezza sulla corrispondenza tra i soppressi tributi e quelli di nuova istituzione, e quindi sull’ente a cui spetterebbero questi ultimi.                               

Ciò ha di fatto ulteriormente complicato la posizione della Sicilia. A causa del mancato coordinamento tra lo Statuto e la riforma tributaria si determinava, ad esempio, il venir meno dell’intera applicazione dell’art. 37 dello Statuto e dei relativi proventi.                                 

Lo Stato ha chiaramente ben beneficiato di questo contenzioso. Per più di 50 anni infatti, sfruttando l’incongruenza tra Statuto e riforma tributaria, non ha devoluto parte dei tributi spettanti alla Regione.

La querelle viene infine risolta con la modifica delle norme di attuazione in materia finanziaria del 1965 (e in particolare del sopra citato art. 2). Attraverso il d.lgs. n. 251 del 2016 vengono stabilite nel dettaglio le quote di imposte erariali spettanti alla Sicilia, ricomprendendo espressamente anche le imposte riscosse altrove ma maturate sul territorio regionale. È stato dunque adottato il criterio del maturato, facendo quindi prevalere il principio della capacità fiscale su quello della territorialità ai fini della determinazione del gettito erariale di spettanza regionale.

Con questa modifica è stato inoltre introdotto il sistema dei decimi per il calcolo della compartecipazione Regionale ai tributi erariali. A differenza del sistema precedente, che attribuiva alla Regione i dieci decimi di tutte le imposte a lei spettanti, viene qui fissata una quota di compartecipazione del gettito IRPEF. Di tale imposta spettano alla Regione 5,61 decimi per il 2016, 6,74 decimi per il 2017 e 7,10 decimi a decorrere dal 2018.

Come se ciò non bastasse, l’efficacia dell’accordo fu subordinata alla condizione dell’avvenuto ritiro di tutti i ricorsi contro lo Stato pendenti in materia di finanza pubblica promossi dalla Regione siciliana prima del 31 dicembre 2015 ed a rinunciare quindi agli effetti positivi delle sentenze che fossero derivati da eventuali pronunce di accoglimento. È così stato premuto il pulsante del reset sulle dispute in materia finanziaria. Si ricomincia, palla al centro! E così l’Italia ha fatto l’ennesimo grande goal alla Sicilia. Ma la partita non è ancora finita, e c’è ancora tanto in gioco da perdere.

A questo è infatti seguito un ulteriore accordo nel luglio 2017, successivamente trasfuso nella modifica delle norme di attuazione dello Statuto Speciale attraverso il d.lgs. n.16 2018. Con questo è stata invece rideterminata la misura della compartecipazione regionale all’IVA. Modificando sempre l’art. 2, si stabilisce che alla Regione siciliana sono attribuiti, a decorrere dal 2017, i 3,64 decimi del gettito dell’IVA. 

Non è stata sicuramente casuale la scelta di applicazione la compartecipazione su questi due tributi. Essi sono infatti quelli che portano una remunerazione “più sostanziosa”, muovendo miliardi di euro l’anno.

Dulcis in fundo, vediamo che fine è toccata al fondo di solidarietà nazionale.
Riguardo al contenuto dell’
art. 38, il contenzioso tra Stato e Regione ha avuto per oggetto il progressivo decremento dei fondi stanziati per il fondo di solidarietà. Tale decremento ha avuto luogo a partire dai primi anni Ottanta – «in un’ottica di contenimento del bilancio e per arginare l’espansione del deficit pubblico» – fino a bloccarne di fatto l’erogazione nel corso degli anni Novanta.

La Corte Costituzionale, interpellata dalla Regione Sicilia – che reclamava la non congruità delle disposizioni statali rispetto alle previsioni statutarie e ai bisogni dell’Isola – ha decretato che il contributo di solidarietà alla Sicilia, per quanto costituisca tra l’altro l’adempimento di un obbligo costituzionale (art. 119 ), non è però vincolato, quanto al suo ammontare ed alle modalità di erogazione, ad alcuna garanzia. Nei fatti, dunque, pur vedendosi riconosciuto il carattere di obbligatorietà, il contributo statale è stato notevolmente ridimensionato nel corso degli anni, passando dall’equivalente di circa 1 miliardo 800 milioni di euro totali nel quinquennio 1985-1989 ai 10 milioni di euro annui (a partire dal 2007 fino al 2021) previsti dalla Finanziaria 2006.

 

Cui prodest?

Ritorna qui attualissimo l’antico proverbio latino. Alla fine dei conti, a chi conviene? La risposta sembra potere essere una sola: allo Stato, sicuramente; ai siciliani, certamente no. Le casse della regione, che già devono sopperire alle fragilità intrinseche all’economia siciliana, si vedono ulteriormente deprivate di una mole ingente di fondi che le dovrebbero essere invece garantiti.

Più di settant’anni sono passati dall’emanazione di quello Statuto che avrebbe dovuto concederci almeno un misero contentino in materia finanziaria in cambio della nostra libertà. Guardando al processo nel suo complesso, quello che possiamo osservare è il dispiegarsi di un intricatissimo garbuglio burocratico con cui lo Stato Italiano è riuscito a svincolarsi dai suoi obblighi. L’Autonomia ha già imposto alla Sicilia il peso di essere stata asservita a un modello produttivo che la vede deprivata delle sue risorse e totalmente devastata dalle logiche di uno Stato assolutamente disinteressato al suo benessere. L’ulteriore privazione in materia finanziaria non può che sembrare l’ennesima beffa oltre al grandissimo danno inferto da anni al territorio siciliano.

In tutto questo la classe politica siciliana non ha avuto nessun ruolo se non quello di piegarsi a scelte prese per la Sicilia in luoghi lontani dalla nostra Isola. Governanti che hanno obbedito ai voleri dei partiti (destra, sinistra, centro) di appartenenza – partiti che, agli interessi delle finanze siciliane hanno sempre messo al primo posto quelle dello Stato e di alcune regioni del Nord. Nel complesso, le vicende finanziarie che intercorrono tra Regione Siciliana e Stato Italiano ci permettono di affermare che l’Autonomia altro non è stata che una trappola, un escamotage con cui mettere un freno alla volontà di riscatto di un popolo che chiedeva l’indipendenza. Che questa storia ci serva allora da lezione per ripartire e riaccendere la voglia di liberazione. Antudo!

 

 

 

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