Osservazioni sull’economia siciliana (2)

Osservazioni sull’economia siciliana (2)

Il settore primario: raffinerie e trivelle

Per comprendere le trasformazioni in atto nel comparto petrolifero siciliano e le loro ricadute territoriali, bisogna ricordare preliminarmente la distinzione generale tra estrazione e raffinazione, le fasi principali dell’intero ciclo produttivo. In termini generali, mentre la raffinazione è il processo di trasformazione del petrolio greggio in prodotti finiti (benzina, gasolio, bitumi, derivati plastici intermedi, ecc), l’estrazione è relativa alla perforazione del sottosuolo e dei fondali marini finalizzata al prelievo degli idrocarburi. Due momenti nella produzione di prodotti energetici, diversi tra loro per intensità di forza-lavoro impiegata, per l’impatto che hanno sul tessuto economico sociale ed ecologico, per attrezzature e impianti, forme d’investimento e dinamiche produttive. Sebbene entrambi siano le componenti principali del ciclo di produzione del petrolio e vengano talvolta gestiti dalle medesime compagnie, il loro peso specifico grava differentemente sui territori. Nell’attuale fase di crisi, in Sicilia l’estrazione e la raffiniazione stanno prendendo direzioni opposte, con effetti sempre più devastanti sotto il profilo occupazionale e ambientale.
In Sicilia il settore della raffinazione dà lavoro a più di 3 mila operai. L’isola è cosparsa di raffinerie: a Gela e a Milazzo si innalzano quelle dell’ENI, a Priolo della LUKOIL (che ha incorporato l’ERG), a Catania della NOGIF, ad Augusta della ESSO-EXXON, a Ragusa quelle della GARBON GRILL. Prima della crisi del 2010 la Sicilia garantiva oltre il 50% del fabbisogno nazionale. Ma già nel gennaio 2012 la capacità di raffinazione è calata al di sotto dei 49 milioni di tonnellate l’anno, corrispondente al 43% del fabbisogno nazionale: un calo del 7% in soli due anni.
Di crisi della raffinazione in Sicilia si parla da molto; in realtà questa crisi, che ha dimensioni europee, si cerca di scaricarla sulle raffinerie del sudeuropa (dalla Rompetrol in Romania, alla Hellenic Petroleum in Grecia, o alla Galp Energy in Portogallo, per fare alcuni esempi). Nel particolare della Sicilia, la capacità produttiva si è ridotta progressivamente; le “cattedrali del deserto” si riempiono sempre più di disoccupati e cassintegrati. L’ENI abbandona la raffinazione per dedicarsi alla ricerca in mare, forte di un accordo con la Regione del signor Crocetta. In questo accordo si delinea di fatto il futuro di Gela, che potrebbe trasformarsi in un enorme deposito costiero; dopo avere avvelenato l’aria, adesso l’ENI mette in pericolo anche il mare. Da diversi giudizi dei Tar risulta che l’ENI chiude le sue raffinerie perchè inquinano, cosa che hanno fatto per decenni senza che i giudici amministrativi o i magistrati se ne accorgessero. Le ragioni stanno, invece, nel cambio di indirizzo che prevede la dismissione delle raffinerie e la creazioni di nuovi pozzi – è questo il programma con cui l’ENI tenta di scaricare la crisi sulla Sicilia privandola del settore a più alto valore aggiunto. Il previsto calo produttivo dell’ENI nel 2017 sarà di oltre il 30%, di cui i due terzi solo nell’isola.
La distribuzione di greggio raffinato si è ridotta di pari passo alla riduzione della raffinazione: dal +21,5% del 2012 oggi siamo di fronte a un pauroso decremento di un ulteriore 20% (beninteso, nella percentuale è compreso il calo del prezzo del greggio). Il crollo delle vendite è comunque pesante: dai 13 miliardi di euro del 2012 si è passati agli 11 miliardi dello scorso anno. Un calo vistoso soprattutto in confronto al dato nazionale sull’export petrolifero che si attesta intorno al -0,1%. Per quanto riguarda le vendite all’estero, i principali mercati di riferimento sono quello turco e quello francese, ma entrambi tendono a contrarsi. Le esportazioni verso gli Stati Uniti sono precipitate del 42,4%. A livello di macroaree, il primo destinatario dell’export siciliano è l’Unione Europea, dove finisce circa il 50% dei prodotti made in Sicily (per un valore di 6,1 miliardi di euro). Seguono l’Africa per il 22% del totale e il Medio Oriente per 8,4%. Complessivamente, però, il saldo tra importazione ed esportazione è negativo; cioè, si importa di più di quanto si esporta, con un gap di circa 9 miliardi di euro.
Passiamo alle trivelle. Chi estrae il petrolio siciliano? L’ENI, con le sue 3 piattaforme a mare e gli oltre 168 pozzi a terra (in Sicilia l’ENI ha il maggior numero di pozzi che nel resto d’Italia); l’EDISON con una piattaforma a mare; la IRMINIO, nei siti di Scicli e Ragusa. Dopo la Basilicata, la Sicilia è la regione che estrae più petrolio. Sono cinque gli insediamenti petroliferi nella terraferma e a mare attivi nell’ Isola, per complessivi 241 pozzi; da lì si estraggono ogni anno 600 mila tonnellate di greggio, il 15% della produzione di idrocarburi italiana. Un valore per le compagnie petrolifere che operano in Sicilia di oltre 300 milioni di euro annui; al territorio, alias alla Regione, restano royalties per molto meno di mezzo milione l’anno (di gran lunga inferiori al 13% delle royalties previste per contratto). A queste somme insignificanti, e solo in parte incassate, Palazzo d’ Orleans ha risposto regalando all’ ENI e alla IRMINIO cinque nuovi permessi di estrazione.
Al danno del furto delle royalties, il governo aggiunge la beffa delle nuove licenze: infatti, se il ministero dello Sviluppo Economico dovesse dare il via libera alle richieste di ricerca in mare attualmente sul tavolo, nemmeno un euro rimarrebbe in Sicilia, perché sul petrolio estratto dalle piattaforme offshore non gravano royalties. Inoltre, i governi nazionali fanno di tutto per contestare il ruolo degli enti locali, anche in materia di idrocarburi, come si è visto nella recente proposta renziana di riforma costituzionale che i siciliani hanno respinto in massa. Al momento attuale, e solo per l’estrazione in terraferma, le royalties dovrebbero aggirarsi intorno al 13%; di queste, un terzo dovrebbe andare alla Regione e due terzi ai Comuni dove insistono gli impianti. Nei suoi incontri con Crocetta, l’ENI propone di portare tutte le royalties al di sotto del 10%, sebbene quelle che effettivamente paga, e che comunque rimangono nelle casse dei governi nazionali, si aggirino intorno all’1-2%.
Le richieste riguardano in prevalenza le perforazioni offshore. Il loro numero è al momento particolarmente elevato, dal momento che le continue guerre nei paesi arabi hanno visto scomparire dal mercato particolari qualità di petrolio (come alcune tipologie di “light crude”), di cui adesso le compagnie sono alla disperata ricerca. Ecco cosa scrive Marco Di Salvo su un dossier di “La voce dell’isola”:
Venti i permessi di ricerca già concessi. Alle isole Egadi, nel Golfo di Gela, a Siculiana, Porto Empedocle, Capo Rossello Palma di Montechiaro, Sciacca, Agrigento, Sciacca, Siculiana, Isole Pelagie, due a Punta Bianca Licata, a Stagnone Capo Feto, a Selinunte fiume Verdura, a Scoglitti, Pozzallo, Fiume Drillo Punta D’Aliga, Mazzara del Vallo e Menfi. Luoghi dove sono già in corso ricerche. Venti sono le compagnie in attesa di una risposta dal governo italiano. Di queste, cinque fanno testa al colosso londinese Nothern Petroleum, che con la Shell ha già iniziato le ricerche in tutto il mediterraneo. La società inglese chiede di poter installare tre piattaforme nel mare delle Isole Egadi per avviare ricerche in una superficie complessiva di 1.600 chilometri quadrati. La Northern Petroleum chiede di poter avviare ricerche anche nel golfo di Gela, nella zona di Capo Rossello ad Agrigento e, insieme agli irlandesi della Petrolceltic Elsa, nel mare tra Siculiana e Porto Empedocle. La Petrolceltic è controllata al 100% dall’omonima società irlandese, e in Italia ha stretto collaborazioni con Vega Oil ed Eni, con la quale chiede di trivellare anche nel golfo di Gela. I canadesi della Hunt oil company, invece, hanno adocchiato tre possibili sorgenti di greggio: tra Sciacca e Agrigento, a Siculiana Marina, e un terzo sito tra Mazara del Vallo e Menfi. E la Puma petroleum da Londra vuole stanziarsi a Lampedusa e Linosa. Un consorzio composto dalla British gas e della italiane Eni ed Edison è interessato ad avviare ricerche a Licata e Punta Bianca. Anche i texani, dopo il tentativo della Panther Oil nel Val di Noto, vogliono pompare petrolio nel mar siciliano. Precisamente nella zona di Scoglitti e Pozzallo, attraverso la Sviluppo risorse naturali (Srn), società controllata dalla Mediterranean Resources, con sede ad Austin in Texas. Ultima istanza presentata al ministero è quella dei canadesi della Nautical petroleum, che chiedono di avviare ricerche tra la foce del fiume Dirillo e punta D’Aliga.
La concessione di nuovi permessi apre panorami nuovi, e mette ulteriormente a rischio l’ecosistema marino e l’intero sottosuolo siciliano. Attualmente sulla terraferma sono 5 le concessioni attive per l’estrazione di petrolio. Le due più grandi sono di proprietà dell’ ENI e trivellano a Gela in un’area di 93 chilometri quadrati, e nella contrada Giaurone, sempre nel gelese, in un’area di 4 chilometri quadrati. Attraverso i suoi pozzi l’ENI estrae circa 500 mila tonnellate di petrolio l’anno. Sempre dell’ENI sono i 102 pozzi di Ragusa, che trivellano in un’ area di 77 chilometri quadrati. I texani della Panther Eureka (una Joint Venture che ha sede a Ragusa), avevano avuto via libera per trivellare nel Val di Noto ma, dopo le proteste popolari e le resistenze dei Comuni, hanno dovuto ritirare le richieste di concessione presentate al ministero dello Sviluppo economico. Ciononostante, la Panther Eureka è titolare di un permesso di “ricerca idrocarburi” in un’area che si estende per 740 chilometri quadrati nella Valle del Tellaro. La compagnia non italiana che estrae più petrolio dal sottosuolo siciliano è la Irminio, acquistata nel 2005 dai texani della Mediterranean Resources. La Irminio gestisce un pozzo a Ragusa dal quale nel 2009 sono stati estratti 50 mila tonnellate di petrolio; ma sono ormai vecchi ricordi: oggi, infatti, solo dal pozzo del “miracoloso” giacimento Sant’Anna la Irminio estrae 167.000 tonnellate.
Nel dettaglio alcune richieste giunte al governo: l’ENI chiede di avviare ricerche in un’area di 74 chilometri quadrati a Biancavilla e in una seconda area di 727 chilometri quadrati sulle Madonie (Petralia Soprana); la bolognese Fantozzi Fgm, una delle più antiche imprese petrolifere italiane, ha chiesto di poter avviare trivellazioni in una mega area di 748 chilometri quadrati, ancora da individuare nel territorio siciliano; oltre che a Ragusa, dove già estraggono ingenti quantità di greggio, i texani della Irminio chiedono di poter installare pozzi anche a Scicli in un’ area di 95 chilometri quadrati. L’anno scorso l’Irminio aveva ottenuto dal governo italiano 100 milioni per la ricerca di petrolio e gas in Sicilia. Come scrive l’amministratore delegato dell’azienda, Antonio Pica, “questa linea di credito” permetterà “di avviare nuove attività in Sicilia” – le aspettiamo con ansia! La Irminio opera in Sicilia dagli anni ‘80 nella ricerca, estrazione e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi. Nel 1981 ha perforato il suo primo pozzo (Irminio-1) scoprendo un enorme giacimento di petrolio e gas naturale, che attualmente è ancora in produzione. Gli investitori istituzionali finanziano la Mediterranean Resources (texana), che detiene il 100% della Sviluppo Risorse Naturali (società con sede a Roma), che detiene a sua volta il 100% della Irminio. Questo giochetto, apparentemente inspiegabile, serve a scavalcare le norme dello Statuto Autonomo siciliano, che impongono alle società di estrazione di idrocarburi di avere in Sicilia la sede legale; col trucchetto della Irminio, la sede è siciliana ma texani i profitti.
Il destino della Sicilia è chiaramente disegnato, come Matteo Renzi qualche tempo fa ha dichiarato alla stampa: “È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia. Io potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone ma non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini“. Per farsi un’idea delle “verità” di Renzi, basti pensare che l’intero scomparto petrolifero della Norvegia, primo paese produttore di petrolio in Europa, occupa circa 60 mila persone; se in Sicilia ci potessero davvero stare 40 mila addetti all’estrazione, l’isola sprofonderebbe sotto il peso delle trivelle e delle raffinerie. Quanto ai “comitatini”, se i No-Triv hanno fatto tanta paura a Renzi, sarà stato forse un male per l’Italia, ma certamente un grosso guadagno per la Sicilia.
Anche sul fronte dell’ estrazione di gas naturale le grandi compagnie tendono ad aumentare, e non poco, lo sfruttamento del territorio dell’isola, alla faccia delle competenze regionali previste dallo Statuto Autonomo. Al momento sono 13 gli impianti per estrazione di gas in Sicilia. Ben 12 sono gestiti dall’ENI che può contare su diversi impianti: da Bronte, alle contrade Gagliano e Fiumetto a Enna, dall’area di Rocca Cavallo tra le province di Catania ed Enna, a Caltanissetta e Mazara del Vallo. La Edison gestisce un impianto a Comiso. Da questi siti nel 2009 sono stati estratti 325 milioni di metri cubi di metano e gas naturale; incoraggiati da questi risultati alla Regione e al ministero dello Sviluppo Economico le compagnie hanno fatto pervenire 11 richieste di ricerca e estrazione. La pressione delle multinazionali nei confronti del governo nazionale e di quello regionale è elevata. Americani, australiani, irlandesi, canadesi e inglesi chiedono di costruire almeno 20 piattaforme off-shore per estrarre gas naturale e petrolio.
Nel 2012 il gas importato in Italia, dalla Libia e dall’Algeria, attraverso i due punti di ingresso di Gela e Mazara del Vallo, rappresentava rispettivamente circa il 3,3 % ed il 30,3 % del totale nazionale importato, per complessivi 27.102 milioni di metri cubi. Le importazioni di gas dal Nord Africa hanno registrato da allora un aumento del 12,7 %  a fronte di un consumo regionale sceso a 4.237 milioni di m cubi. La parte eccedente, che raggiunge l’84,4%, è destinata al mercato esterno. E’ interessante notare come, a dispetto della ricchezza dei giacimenti siciliani, la spesa di gas per le famiglie siciliane è il più alto rispetto alle altre regioni italiane. Un solo esempio: a confronto della media delle regioni settentrionali, la spesa annua in Sicilia è superiore di 179 euro.
Infine, una parola sullo scisto bituminoso, la cui estrazione è notoriamente dannosa sul piano geologico. In Sicilia, terra instabile di natura sua, sono stati scoperti giacimenti di scisto bituminoso pari a 73 miliardi di barili e sono già molte compagnie, soprattutto americane, che vorrebbero avviare l’estrazione. Mancano ancora i permessi, ma le domande sono già partite!
Il comparto petrolifero siciliano si muove, dunque, in direzioni contrapposte: da una parte, rallenta l’attività di raffinazione, ad alto impatto di lavoro; dall’altra, accelera vertiginosamente l’attività estrattiva, a basso impatto di lavoro. I blocchi e le proteste a Gela contro la cosiddetta riconversione “green” si fanno sempre più frequenti e intense. Non solo l’occupazione è minacciata; l’aumento dell’attività di perforazione mette a rischio la stabilità del territorio. A chi obietta che le trivelle inquinano meno delle raffinerie, basta ricordare che piattaforme e pozzi sono riconosciuti come una seria minaccia alla stabilità del sottosuolo, all’armonia degli ecosistemi, all’equilibrio sismico. Il governo delle multinazionali, però, questi pericoli non li tiene in conto: il progetto “Sblocca Italia” snellisce i passaggi burocratici per iniziare la ricerca e l’estrazione di idrocarburi, accresce i poteri governativi rispetto a quello delle Regioni e si propone di raddoppiare la produzione di petrolio entro il 2020. L’ENI ha recentemente chiesto al governo la somma di 1,8 miliardi da investire sull’estrazione di petrolio e gas naturale, sia a mare che sulla terraferma; nello stesso tempo, però, abbandona la raffinazione e licenzia gli operai di Gela. Concludete voi!

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