Catalogna: la democrazia va bene, fino a un certo punto.

Catalogna: la democrazia va bene, fino a un certo punto.

Ha ragione Carles Puigdemont, presidente della Generalitat catalana: le immagini della violenza della polizia nazionale e della Guardia civil contro i seggi, e spesso gli elettori (si contano almeno settecento feriti), del referendum indetto per l’indipendenza resteranno a lungo impresse. Da una parte militari in assetto antisommossa, minacciosi e violenti; dall’altra un popolo con le mani alzate che gridava Voterem, voterem. E d’altronde, nonostante le irruzioni, in molti seggi si è continuato a votare.
Il referendum non si è tenuto davvero, proverà a dire Rajoy e il suo governo: la vicepresidente Soraya Saénz de Santamaría, ha già invitato Puigdemont a smetterla con “esta farsa”. Il referendum s’è tenuto, potrà dichiarare il popolo catalano. I seggi pacificamente occupati fin dalla notte, le lunghe e ordinate file fin dall’alba, gli assembramenti, le discussioni, le manifestazioni – non solo l’1 ottobre ma in tutti i giorni che l’hanno preceduto – sono stati la chiara espressione di una volontà di voto. Non è più questione di numeri e urne e seggi: il popolo catalano ha difeso la sua libertà di voto.
Un voto che è stato “sequestrato” – non si può definire altrimenti quello che è accaduto, le urne strappate a forza dalle mani degli impiegati e dei volontari. Per un giorno intero, la democrazia in Catalogna è stata sequestrata. A salvarla, a difenderla, a costruirla, la determinazione popolare.
Che cosa succederà adesso? «Barcellona non ha paura», dice il sindaco Ada Colau, e c’è da crederle. Anna Gabriel, portavoce della CUP (Candidatura de Unidad Popular) chiede di convocare uno sciopero generale per il 3 ottobre: «Este país sabe lo que es perder una guerra por eso ahora queremos ganarla / Questo paese sa cosa vuol dire perdere una guerra, ecco perché adesso vogliamo vincerla».
Forse ha ragione Adriano Sofri che nei suoi reportage dal Kurdistan iracheno prima e dopo il referendum che ne ha proclamato la volontà d’indipendenza – lucidi, dettagliati, non privi di una leggerezza che cerca di stemperare il senso di una tragedia che si sente incombente – dice che a guardare le cose da lì fa un certo effetto un qualunque paragone con il referendum in Catalogna: di là, c’è ancora un Risorgimento nazionale da compiere; di qua, «fa parte dei lussi che l’Europa si permette – come il più frivolo, il referendum di Cameron: l’Europa ogni tanto esce fuor di sé».
Però, fa anche un certo effetto pensare alle pressioni esercitate di là da iracheni, iraniani, turchi, a che il referendum non si tenesse. Ordini da Baghdad: «Tutti i valichi di cielo e di terra fra il Kurdistan e il resto del mondo devono essere chiusi, e la merce che vi transita considerata contrabbando. I paesi limitrofi sono invitati a collaborare col governo iracheno per attuare questi provvedimenti. Il governo richiami tutti gli Stati che hanno consolati nel Kurdistan perché li traslochino fuori dalla Regione Curda, nel governatorato iracheno più vicino. Tutti i dipendenti pubblici curdi che hanno votato al referendum saranno perseguiti amministrativamente e giudiziariamente. I pozzi di petrolio delle “zone contese” devono essere liberati dalla presenza curda e da qualunque ente straniero o locale che non sia il ministero di Bagdad. Kirkuk dev’essere restituita alle forze armate irachene. A queste ultime si ordina di occupare Kirkuk e le altre zone contese e di attuare gli ordini suddetti…»
E una volta tenuto, a non riconoscerne gli esiti; il presidente turco Erdogan a Barzani: «Chi riconoscerà la tua indipendenza?» Buon ultimi gli americani: il segretario di Stato Usa Rex Tillerson in un comunicato ha dichiarato: «Il voto e i risultati mancano di legittimità e continuiamo a sostenere un Iraq unito, federale, democratico e prospero». Amen.
I curdi vanno bene quando si tratta di mettere le forze sul campo per fermare l’Isis e ricacciare indietro la minaccia fondamentalista, ma che si tolgano dal cervello l’idea di decidere autonomamente del proprio futuro.
Però la storia a volte compie strane accelerazioni: in Rojava, una delle roccaforti nella riconquista dei territori dello Stato islamico, è da tempo in corso un esperimento istituzionale e sociale di “federazione”; l’obiettivo non è più quello della costruzione di un nuovo Stato-nazione. Il panarabismo nazionale venato di socialismi “locali”, che pure un ruolo importante ebbe nella liberazione dal colonialismo, è stato spazzato via. Dalle guerre del Golfo, dall’islamismo sunnita, dalle monarchie saudite e dal wahabismo, dallo sciismo teocratico, dall’Hezbollah, dalle primavere che attraversarono d’improvviso tutto il nord Africa.
Non è semplice dire, e forse neppure raccontare, quello che sta succedendo in Medio oriente, e ci vorrebbe la palla di vetro per immaginare quello che potrà succedere. Però, i curdi sembrano avere chiaro che oltre a voler riunificare una nazione dispersa non hanno molta intenzione di riedificare uno Stato centralista.
Forse, a vederla così, c’è meno distanza non solo tra Madrid e Baghdad ma tra Barcellona e Ebril di quella che può sembrare.

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