Evviva Sant’Aita.

Evviva Sant’Aita.

Sant’Aita è a tezza festa cchiu bella do munnu”, è la frase tipica che il catanese rivolge a qualcuno che afferma di non aver mai visto la festa della santa patrona dal vivo. Festa che, come tutti gli anni, anche questa volta porta nelle strade etnee circa un milione di persone, accorse nei diversi momenti dei festeggiamenti iniziati il 3 febbraio e che si concluderanno domani mattina all’alba con la deposizione dei reliquiari nel sacello della Cattedrale. Festeggiamenti grandiosi in cui si esprime la perfetta sintesi fra elemento devozionale e folklorico, sintesi che si riverbera dalle origini del culto sino alla contemporaneità nella scenica e pesantissima macchina barocca portata in processione sulle spalle con devozione stoica, nei diversi spettacoli pirotecnici fra cui quelli de ‘a sira o tri che squarciano il cielo, nelle deliziose minne di sant’Agata preparate con impegno e amore da sapienti mani, negli occhi di tutti i catanesi che in questi giorni rivivono con orgoglio e commozione le tradizioni tramandate dai propri antenati. Ricordiamo insieme a voi la narrazione che vuole, nel primo anniversario della morte della nostra Agata, giovane donna catanese vissuta nel III secolo e posta al martirio dal proconsole romano Quinziano, una violenta eruzione dell’Etna che minacciava di seppellire Catania e, in quell’occasione, in ricordo e ammirazione per la martire i catanesi, credenti e non, presero il velo che alla sua morte venne deposto sul sepolcro e lo usarono come scudo contro la lava ardente permettendo l’immediato arresto del fiume di fuoco. È proprio a partire da questo episodio che si sviluppa lo straordinario culto dedicatole dalla città e l’incombustibile velo rosso è una delle otto reliquie custodite, come le altre, nella Cattedrale all’interno di reliquiari argentei antropomorfi racchiusi in un prezioso scrigno anch’esso in argento (la calotta cranica, invece, trova posto nel preziosissimo busto reliquiario che avi l’occhi ca parunu du stiddi e tuttu l’oru n’te capiddi).
I festeggiamenti si sono aperti dunque il 3 con l’annacata dei 12 cannalori votivi lignei per le vie del centro e se il 4 l’amata santa sfila per le vie periferiche della città, oggi invece calca le strade del centro. In tutte le occasioni è comunque un bagno di folla, incontro rumoroso e comunque mistico fra la santa e il suo popolo che in essa si riconosce.
Fino al secolo scorso, la festa, che peraltro è stata dichiarata patrimonio Unesco come Bene Etno-Antropologico nel 2005, presentava anche il rito delle ntuppateddi (collegato alle manifestazioni propiziatorie della fertilità del culto alessandrino di Iside in cui quello di Sant’Agata ritrova le sue radici pagane) e si riferiva all’usanza delle donne, signore o popolane, nubili o maritate, che in quella circostanza avevano la possibilità di uscire da sole e mescolarsi con la folla potendo ricevere le lusinghe e attenzioni dei cavalieri. Un’usanza siciliana ricordata dal Pitrè in Spettacoli e feste popolari siciliane: «Le donne per non farsi riconoscere sono vestite colla massima eleganza, coprono la metà della persona dalla vita in su con un manto di seta nero, lasciando soltanto aperto l’occhio destro onde guardare e dirigersi in istrada; ed hanno figuratamente il nome di attuppateddi. Vanno esse a due, a tre ed anche più, o sole, a braccio di parenti o d’amici. Molte se ne dissero di queste donne così camuffate, e delle conquiste amorose che si fanno in quel giorno soprattutto per un po’ di libertà che sotto quella foggia si hanno; ma non bisogna credere a relazioni di viaggiatori e ad aneddoti di piacevoli novellieri. Quel che c’è di vero è che l’attuppateddi andando per istrada (e ve n’è migliaia, sì che il Corso Stesicoreo ne è come invaso) s’accostano a qualche amico o conoscente, e prendendolo sotto il braccio lo conducono a un dolciere per averne confetti od altro che loro aggradi».
Anche questa volta, pur nel pieno del terzo millennio, rivive dunque il passato e non con sentimento nostalgico ma con tutta la forza desiderante di chi rimane ancorato alle proprie radici e tradizioni.
E come recitano i versi tratti da una raccolta di poesie siciliane della catanese Francesca Privitera: Nun c’è ventu, nun c’è acqua, né bufera, né timpesta / casca u munnu ma Catania a Frivaru si fa festa. / Lu splinnuri di la Santa, l’emozioni di la genti/ comu n’ecu ca cuntaggia tutti i cincu continenti. / Emigranti di luntanu… janchi,niuri, longhi e curti/ arrispunnunu cchiù forti… semu tutti divoti tutti… / Ma ‘na vuci tra la fudda… si fa largu e acchiana jauta… /è la vuci di Catania: Cittadiniiiii… Evviva Sant’Aita!!!

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