Le tre punte della Sicilia tra storia e leggenda

Le tre punte della Sicilia tra storia e leggenda

Capo Passero (SR), Capo Lilibeo (TP) e Capo Peloro (ME) sono le tre punte della Sicilia situate rispettivamente a Sud Est, a Ovest e a Nord Est: tre siti di straordinaria bellezza paesaggistica carichi di storia e avvolti da leggende.
I tre capi sono simbolicamente raffigurati dalle gambe della triscele della bandiera siciliana, la cui disposizione si ritrova nel termine greco triskeles e si ricollega al significato geografico: treis (tre) e akra (promontori).

Secondo una antica leggenda a sorreggere i tre promontori vi è il gigante Tifeo che con la mano destra sorregge Peloro, con la sinistra Pachino, Lilibeo poggia sulle sue gambe e sulla sua testa vi è l’Etna. Tifeo è figlio di Ade e di Gea.
Appena nato viene destinato dalla madre a una lotta contro Zeus, colpevole di aver sconfitto i Titani, anch’essi figli di Gea.
Nel corso di uno dei tanti combattimenti fra i due, Tifeo fugge verso oriente per riordinare la sua strategia. Arriva così ai limiti del territorio siriano e si ferma in attesa. Ricomincia la lotta con Zeus, ma questa volta il gigante strappa l’arma dalle mani del Re degli dei. Con questa taglia i tendini dei piedi e delle mani di Zeus, poi lo scaraventa dentro una grotta in Cilicia, distretto sulla costa sud orientale dell’Asia Minore.
Il Re del Pantheon greco riceve però l’aiuto di Hermes e Pan che ritrovano i suoi tendini, lo rimettono in sesto e lo riportano sull’Olimpo, pronto a ricominciare il confronto. Forse Tifeo avrebbe vinto ancora una volta, ma il fato ci mette lo zampino.
Sul monte Nisa, le Moire (le tre filatrici, le Klothes, rappresentanti il destino) lo rifocillano con frutti solitamente destinati ai mortali: lui, creatura divina, al contatto diretto con quel cibo, inizia a perdere le forze. Zeus approfitta subito dell’occasione e ferisce profondamente il gigante. Tifone fugge in Sicilia, ma il Re degli dei lo insegue e lo imprigiona per sempre sotto l’Etna.

Un’altra leggenda legata ai tre Capi è quella delle tre Ninfe. Nella mitologia greca le ninfe sono giovani e bellissime dee che rappresentano la fertilità della terra e della natura. La leggenda racconta di tre ninfe che giravano il mondo raccogliendo particolari frutti, semi, parti di terra e sassi dai principali terreni fertili. Un giorno dopo la raccolta arrivarono in un’area soleggiata e dal cielo azzurro e limpido e decisero di lanciare insieme tutto quello che avevano raccolto. Dopo il lancio iniziarono a prendere forma proprio i tre promontori di Capo Peloro, Capo Passero e Capo Lilibeo, mentre dalle onde del mare emerse una terra, proprio la Sicilia.

In particolare, Capo Peloro vanta una leggenda che lo vede protagonista: la Leggenda di Colapesce.
Cola (Nicola) viveva nei pressi di Capo Peloro, a Messina, e passava le intere giornate più in mare che sulla terraferma. Il mare era tutta la sua vita, la sua passione, ed esplorare i fondali silenziosi e immensi lo rendeva più libero e vivo.
Questa sua passione non era ben vista dalla madre perché molte volte il ragazzo aveva il vizio di ributtare il pescato al mare, tanto più che un giorno la disperata lo maledisse pronunciando questa frase: «Che tu possa diventar come un pesce!». Detto fatto! Col passare del tempo la sua pelle divenne sempre più squamosa, le mani e i piedi simili a delle pinne. La sua fama si diffuse in tutta la Sicilia, raggiungendo la corte del re Ruggero (anche se molte versioni della leggenda riportano l’Imperatore Federico II di Svevia). Il re volle conoscerlo e giunse, così, a Messina dove mise subito alla prova le sue abilità marine gettando in mare una coppa d’oro. Colapesce rispose e si gettò subito in mare recuperando il prezioso oggetto. Il re lo premiò, ma lo sottomise subito ad altre due prove. Il re questa volta gettò una corona in un punto particolarmente profondo del mare e mentre Colapesce la cercava, vide che la Sicilia poggiava su tre colonne: due erano intatte mentre la terza era consumata da un fuoco che c’era tra Catania e Messina.
Colapesce, tornando in superficie, raccontò al re Ruggero ciò che vide, ma il sovrano non gli credette e obbligò, minacciandolo, di riportare dal mare quel fuoco. Colapesce gli rispose: «Maestà, vedete questo pezzo di legno? Io mi tufferò con esso, e se lo vedrete rimontare a galla bruciato, vuol dire che il fuoco c’è davvero, come dico io; ma vorrà anche dire che io sarò morto, perché il fuoco brucerà anche me» . Coraggiosamente, Colapesce si tuffò in mare e tutti, dal re ai nobili, alla gente del popolo, rimasero in attesa che egli tornasse in superficie. Ma tornò a galla solo il pezzo di legno bruciato.

Colapesce rimase in mare, nel mezzo di quel fuoco, a sorreggere – come tutt’ora fa – quella colonna mal combinata, perché la sua terra tanto amata non crolli.

E se ogni tanto la terra tra Messina e Catania trema un po’, è solamente perché Colapesce cambia lato della spalla.

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