Perché siamo contro il regionalismo differenziato.

Perché siamo contro il regionalismo differenziato.

Partiamo dalle preoccupazioni degli studiosi delle questioni legate al Mezzogiorno. Nel Rapporto 2018 di SRM – Studi e Ricerche per il Mezzogiorno – con Ipres Puglia, Ires Piemonte, Irpet Toscana, Liguria Ricerche, Polis Lombardia, dedicato a “La Finanza territoriale”, si riscontra un ampio ventaglio di posizioni: se nel testo di Andrea Filippetti e Fabrizio Tuzi (I costi del federalismo asimmetrico: alcune ipotesi) sembra minimizzarsi la portata reale di questo processo (asimmetrico o differenziato, sono termini qui interscambiali), nel saggio di Stefano Piperno (Le prospettive del regionalismo asimmetrico in Italia) si manifesta maggiore disponibilità ma anche preoccupazione. A esempio: «Si eviterebbe di costringere le Regioni più avanzate in termini di capacità istituzionale e amministrativa a essere ancorate a quelle più in ritardo nel percorso di decentramento, favorendo un positivo meccanismo di concorrenza orizzontale, oltre che verticale, tra livelli di governo, che facilita la sperimentazione e l’innovazione rendendone in seguito disponibili i risultati per tutti. Infine, la maggiore crescita di tali regioni dovrebbe garantire effetti economici positivi anche nelle altre. Ciò, però, sarà vero solo se l’asimmetria risulterà coerente con le altre caratteristiche e specificità del sistema di relazioni intergovernative presente in un Paese. Prendiamo il caso dell’Italia. Un modello asimmetrico non potrebbe prescindere dalla particolare configurazione dei rapporti tra Regioni ed enti locali legata alla forte tradizione municipalistica del nostro Paese (che ha fatto parlare di “federalismo a tre punte”) che richiederà un ruolo rilevante dei secondi nella gestione delle nuove funzioni amministrative. In secondo luogo, abbiamo sinora parlato solo di profili legati all’efficienza ma non va dimenticato il profilo dell’equità. L’asimmetria nelle competenze richiede infatti anche una asimmetria nel finanziamento, secondo modalità che dovrebbero però garantire una sorta di neutralità perequativa per rispettare i livelli essenziali delle prestazioni (Lep). I meccanismi previsti dovrebbero quindi risultare coerenti con l’art. 119 della Costituzione e la sua legge attuativa l. n. 42/2009. Quanto più, però, le risorse finanziarie saranno rappresentate da tributi propri e/o compartecipazioni a tributi erariali e rimarranno in loco, tanto più emergerà il fatto che uniformità delle prestazioni e autonomia finanziaria non sono interamente conciliabili. Ambedue possono essere presenti, ma una delle due tende inevitabilmente a prevalere. La soluzione di questo trade off può essere individuata solo a livello politico in maniera tale da evitare un’eccessiva conflittualità tra le diverse aree del Paese». La verità, è che nessuno ha la più pallida idea di cosa potrebbe e potrà accadere: i “casi” studiati e su cui esistono cifre, rilevamenti statistici, considerazioni, e cioè: Spagna/Catalogna, Belgio/Fiandre, Canada/Quebec non sembrano esemplari di soluzioni condivise.
Nel numero 1-2 2018 della Rivista economica del Mezzogiorno dello Svimez. vi si trova, in apertura, un breve saggio di Giannola (il presidente) e Stornaiuolo (Federico II di Napoli) sul “federalismo differenziato”, in cui si mostrano notevoli perplessità. Un punto centrale è questo: «La pretesa di alcune Regioni del Nord di controllo del proprio Residuo Fiscale sconta un macroscopico errore, in quanto nel saldo tra entrate e spese pubbliche si omette di includere proprio quella componente di spesa che nel corso degli ultimi venti anni è progressivamente divenuta la più rilevante: l’onere per gli interessi da corrispondere ai titolari del debito pubblico (famiglie e imprese; banche, intermediari, assicurazioni, residenti esteri). Questa posta contabile rappresenta una spesa per lo Stato ed un’entrata per i titolari. Per cui il saldo da considerare, non è quello del semplice residuo fiscale ma il residuo fiscale ‘aumentato’ per gli interessi, cioè il Residuo Fiscale-Finanziario». Insomma, il punto è che la maggior parte (al settanta percento) degli interessi per i titolari di debito pubblico va al centro-nord (i percettori), ma il pagamento sul debito pubblico (le manovre per farvi fronte) lo facciamo “tutti insieme”, nord e sud in quanto Stato. Cioè al nord acchiappano, ma quando si tratta di pagare siamo “una nazione, nord e sud uniti”, e paghiamo noi anche il loro debito. E questo, a proposito delle risorse che andrebbero invece soprattutto al sud: ma i rentiers sono patriottici.
Un dato, però, è certo: la fine del rapporto tra centralità dello Stato nazionale e regioni autonome o a Statuto speciale come lo abbiamo sinora conosciuto in Italia è già in atto. La realtà è che dal 15 febbraio lo Stato d’Italia e la costituzione più bella del mondo sono entrati in coma profondo: il Consiglio dei ministri ha ascoltato la relazione “tecnica” del ministro Stefani e lo “stato dell’arte” sulle richieste di tre regioni (Lombardia, Veneto, Emilia – altre si vanno accodando su numeri variabili delle competenze richieste) per l’autonomia differenziata. Che poi è una fiscalità differenziata, che poi è una cittadinanza differenziata. Per dire, la proposta “di autonomia differenziata” sulla scuola è che insegnanti lombardi insegnino nelle scuole lombarde a mezzo di una graduatoria lombarda. E via di questo passo, per marchigiani, abruzzesi, siciliani. Così, non avremo più una scuola pubblica, ma una scuola veneta, una toscana, una calabrese, per dire. E ragazzi emiliani, sardi o pugliesi che studieranno su manuali scolastici emiliani, sardi o pugliesi. La forma-stato quale l’abbiamo conosciuta, l’idea stessa di “nazione”, quale si è sedimentata in questo paese, per storia, cultura e lotte è in frantumi. Un percorso già intrapreso con il governo Gentiloni. Si sono successivamente spesi per rassicurarci, non succede nulla, il sud non verrà penalizzato.
Il punto è proprio questo: non c’è un soggetto politico meridionale, e quindi fanno carne di porco. Questo non è un processo secessionista (come viene coloritamente definito, per farsi capire: “la secessione dei ricchi”), ma un processo di ristrutturazione della forma-stato come l’avevamo conosciuta per tutti i “gloriosi” trent’anni di fordismo e keynesismo, cioè l’omologazione del territorio nazionale, attraverso mercato, industrializzazione, infrastrutture e servizi, per un salto del capitalismo italiano nel mercato globale dopo l’autarchia fascista. Il nazionalismo (o sovranismo o nuova faccia del fascismo o come lo si voglia chiamare) è sostanzialmente questa cosa qua: la ridefinizione dello Stato, della forma-stato. La ricostruzione dell’autorità centrale dello Stato sui confini nazionali, che rimangono l’unica definizione di Stato. La ri-statalizzazione, dopo il massacro fatto dal liberismo globalista. Tutto il “contenzioso della politica” (euro e Europa, migranti, Tav, giustizia ecc ecc) è composto di “questioni” riconducibili alla questione centrale: lo Stato).
Di certo, le autonomie e gli statuti speciali (Sicilia e Sardegna, su tutto) piantate nella costituzione del ’48, per mettere a freno le spinte all’indipendentismo dell’immediato dopoguerra sono da tempo svuotate di senso, già per via sentenze di Corte costituzionale e modifiche alla Carta, e ora – con il “superamento” di competenze delle regioni “differenziate” – diventano insignificanti.
Nessun rimpianto, sia chiaro, anche perché non c’è proprio possibilità di rimettere l’orologio su una “ora legale dell’autonomia regionale”. Ma appunto: quando al sud capiremo che non esiste più alcun discorso, alcun linguaggio politico di “unità nazionale” con chicchessia, forse inizieremo a ragionare su quale possa essere una forma nuova e diversa delle forme istituzionali in un processo di cambiamento delle forme della produzione e della distribuzione della ricchezza. Si chiama: indipendenza. Si può essere o meno d’accordo su questa – ma la constatazione del coma profondo dello Stato com’era e della violenza riorganizzatrice dello Stato come vorrebbe essere, questo dovrebbe almeno essere un punto di partenza comune. Vagheggiare una nuova o vecchia “unità nazionale” che non affronti la forma dello Stato e non vi si opponga è di una debolezza e vacuità assolute.

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