Nun lu sintiti lu Vespiru ca sona?

Nun lu sintiti lu Vespiru ca sona?
Tante e discordanti sono le letture che nel corso del tempo gli storici hanno suggerito del Vespro siciliano, l’episodio di certo più grandioso della storia siciliana.

Le diverse interpretazioni ruotano prevalentemente attorno a due poli: da un lato, il Vespro viene presentato come rivoluzione popolare; dall’altro, sottostimato in quanto rivolta istigata dai baroni e dal loro leader Giovanni da Procida. Per orientarci tra l’una e l’altra interpretazione, è necessario analizzare brevemente il contesto nel quale il Vespro è divampato.

 

Il contesto

Contesto religioso. Il papato aveva appoggiato i francesi contro gli svevi, favorendo l’ascesa al trono di Re Carlo I d’Angiò (1266). La scelta del papa alimentò il clima di crisi profonda nel quale era piombata l’istituzione ecclesiastica, già turbata da scandali, corruzione, simonia, atti di libidine; quella scelta indebolì ulteriormente la fiducia del popolo siciliano nella Chiesa.

Contesto politico: il Basso Medioevo era scosso da una inarrestabile anarchia politica determinata dal crescente inurbamento, dalla formazione di nuovi ceti sociali, dallo sviluppo dei Comuni e delle città marinare. Dalla «rissa brutale», come scrive lo storico Michele Amari, di «nobili e popolani». Deriva da qui una profonda trasformazione degli ordinamenti feudali e una perdita di vigore degli ideali imperiali e monarchici.

Contesto sociale: dopo il regno di Federico II, in Sicilia crebbe lo scompiglio sociale anche in relazione alla guerra che il papato decideva di muovere all’impero svevo. In quello scompiglio, che comportava l’indebolimento delle ideologie dominanti, acquistarono forza le municipalità, fondate su nuove concezioni repubblicane.

 

Arrivano i francesi

Il papa Clemente IV, contrario a Manfredi (figlio illegittimo di Federico II), scelse infine di sostituirgli Carlo d’Angiò nel governo della Sicilia. A ciò mosso anche dal fatto che il re francese prometteva di pagare un censo di 8 mila once di oro all’anno e assicurava il servizio militare su richiesta e un esercito schierato dalla parte della Chiesa romana. Carlo d’Angiò era noto per aver gravato il popolo francese con pesanti gabelle, a ciò portato dalla necessità di sostenere le spese enormi del regno. Carlo giunse in Italia con un “esercito di ladroni” e fu incoronato in Vaticano. In breve tempo conquistò Napoli e la Calabria; la Sicilia gli si arrese nel 1266.

Un anno dopo l’arrivo degli angioini, i siciliani (popolo e baroni) insorsero per far salire al trono Corradino, figlio di Manfredi. Però, col decisivo concorso del papa, Corradino venne imprigionato e ucciso. Seguì una dura repressione, ordinata da Carlo d’Angiò: «ai siciliani nulla mercé». A tal fine il re chiamò un suo spietato comandante, Guglielmo Estendard, affinché facesse pulizia dei siciliani insorti. Come scrive Michele Amari: «Ivano i suoi (la soldatesca di Estendard) per la città, contaminando ogni luogo con uccisioni, stupri, saccheggi; cercavano lor vittime per fin entro le cisterne e le fosse del grano». Estendard distrusse completamente Augusta, centro della rivolta, riducendola a una città deserta e in rovina, facendo una carneficina a cui solo pochi riuscirono a sottrarsi.

 

Il matrimonio alla chiesa di Santo Spirito

Sottomessa dalle forze angioine, la Sicilia venne gravata di tasse, gabelle, angherie; le baronie furono regalate ai francesi e i baroni siciliani spodestati dei loro possedimenti. Carcere, torture d’ogni tipo, esecuzioni erano all’ordine del giorno. I siciliani sopportarono per oltre un decennio, fino alla primavera del 1282.

Il lunedì dell’Angelo di quell’anno, si celebrava una festa di matrimonio alla chiesa di Santo Spirito (dove si trova adesso il cimitero di Sant’Orsola). La gente festeggiava con musica e danze, si apparecchiavano tavoli colmi di cibo, «respirando dai rei travagli». I francesi giunsero sul posto col solito fare arrogante, si mischiarono alle brigate, danzavano facendosi beffa dei palermitani, infastidendo le donne e apostrofandole con parole volgari. I giovani palermitani reagirono ma furono prontamente bloccati e picchiati «con bastoni e nerbi».

Poco dopo giunse la coppia che doveva unirsi in matrimonio. La futura sposa fu fermata da un francese, Droetto, il quale con la scusa di cercare armi le scoprì il petto. La giovane cadde in terra svenuta. Dalla folla un giovane si scagliò contro Droetto e lo uccise col pugnale che era riuscito a sottrargli.

 

Scoppia la rivolta

Per quanto alterato dalla leggenda, quello fu l’inizio della rivolta. Al grido di «morte ai francesi» i palermitani con sassi, bastoni e pugnali uccisero ogni francese che si trovava nei paraggi, quindi si riversarono in città decisi a liberarsi dai loro oppressori: in una sola notte vennero uccisi 2000 francesi. Nulla restò degli odiati angioini: «né un domestico asilo rimane a dove l’abbominato accento straniero non penetrasse a ricordare più scolpitamente la servitù» (M. Amari).

La stessa sera si radunò un’assemblea popolare che ripudiò il regno e inaugurò il republican magisterio e l’autogoverno. Ruggero Mastrangelo, che aveva guidato la rivolta, fu nominato Capitano del popolo e chiamato alla guida del Comune. I primi nuclei di rivoluzionari si formano a Palermo e a Corleone, da dove partirono nei giorni successivi tre colonne dirette una verso Cefalù, una seconda verso Calatafimi e una terza verso Castrogiovanni. La forte spinta spinta popolare accese la rivolta in ogni parte della Sicilia; in due settimane i 3/4 dell’isola furono nelle mani dei siciliani.

Infine, il 28 aprile venne liberata anche Messina, dov’era molto forte la presenza militare angioina.

 

Le spinte controrivoluzionarie 

Messina si proclamò “libero comune” e si aggregò alla communitas siciliae, confederazione delle comunità siciliane indipendenti. Ogni comunità era retta da un capitano, il più delle volte il capo militare della rivolta, e si riuniva periodicamente in un nuovo Parlamento che aveva sede a Palermo. Un momento memorabile di potere comunitario che Amari così ricorda: «[…] all’autorità dello Stato incerta e vacillante sottentra la municipale, che più si avvicina alla semplicità de’ naturali ordini del vivere in comunanza».

Presto, però, presero a manifestarsi le spinte controrivoluzionarie dei baroni. Già prima del 1282, essi preparavano il ritorno degli svevi, contando sul fatto che Pietro d’Aragona era genero di Manfredi, avendone sposato la figlia Costanza, e dunque poteva considerarsi un degno successore della dinastia sveva. Le politiche baronali se dapprincipio avevano creato un terreno favorevole alla rivoluzione, dopo i moti scoppiati per tutta l’isola si posero l’obiettivo di indirizzarli in favore del re aragonese.

Ugone Talach, signore di Bivona, durante una seduta del Parlamento di metà aprile pronunciò un discorso contro l’isolamento della Sicilia e si dichiarò favorevole ad affidarla a «qualche principe straniero». Quando nell’agosto del 1282 Pietro d’Aragona riuscì a salire sul trono siciliano, il Parlamento venne sciolto d’imperio e la Communitas Siciliae fu costretta a sciogliersi. Si concluse così uno dei più memorabili episodi della storia del popolo siciliano.

 

Il racconto della rivoluzione del Vespro fino alla metà dell’800…

Come si è detto, fin da subito fu chiara la natura popolare della rivoluzione del Vespro. Una delle prime testimonianze di questa natura è fornita da Dante Alighieri. Il poeta non aveva dubbi. Egli scrisse che fu la mala signoria degli Angioni a spingere il popolo di Palermo a gridare Mora, mora! Egli ricordava così la tragedia di un popolo sfruttato da regnanti senza scrupoli, impoverito nelle sue risorse, umiliato nella sua dignità. Da buon ghibellino, pose Manfredi nel Purgatorio, immaginando un suo pentimento in fin di vita, mentre il pontefice lo aveva scomunicato. In questo modo, riconosceva la fallibilità del papato che aveva imposto ai siciliani un re “impopolare”.

Del medesimo avviso furono molti scrittori del passato, come Brunetto Latini, Petrarca, Boccaccio. Unica voce discordante fu quella di Giovanni Villani, che apertamente si dichiarava filo-angioino. Villani definiva il massacratore di Augusta, Guglielmo l’Etendard, “un valoroso guerriero”. A suo dire il Vespro fu sollecitato dai baroni che, spodestati dagli angioini, complottarono in favore degli aragonesi. La voce di Villani, tuttavia, era una voce isolata, tranne a venir ripescata parecchi secoli più avanti, come vedremo.

Nel complesso il grosso delle letture del Vespro coincide, fino alla metà dell’800, con quella di Dante. Il Vespro, dunque, per secoli fu considerato una rivoluzione di popolo contro la brutale dominazione straniera. Così appariva ancora nel 1843, quando Michele Amari ne La guerra del Vespro esaltava il carattere popolare dell’insurrezione siciliana. Per tutta la prima metà dell’800, spinte dal clima romantico dominante, furono prodotte molte e importanti opere d’arte ispirate al Vespro siciliano: in quegli anni il racconto del Vespro raggiunse un altissimo valore simbolico e mitologico.

 

…e dopo l’Unità d’Italia

Per paura che la rievocazione di quegli episodi potesse riaccendere l’animo dei siciliani, all’opera di Verdi del 1855 venne imposto il titolo non già di Vespri Siciliani, ma di Giovanna di Guzmann e si decise di ambientarla in Portogallo anziché in Sicilia. Oltre all’opera lirica di Verdi, tra gli esempi più noti troviamo i dipinti di Francesco Hayez, diventati icone dal forte sapore neoclassico e romantico.

Queste ultime rappresentazioni, per la loro rilettura mitologica del Vespro, tornarono in voga dopo l’Unità d’Italia del 1860, nel momento in cui si manifestò prepotentemente la spinta risorgimentale al rafforzamento dello spirito nazionalistico della storia d’Italia. Lo Stato unitario appena formato pretese che la storia del Vespro rientrasse nella compagine della nuova storia nazionale. I più ghiotti momenti storici da “inglobare” furono in primo luogo quelli dal forte contenuto mitologico. Gli aspetti locali e popolari, però, dovevano essere cancellati in favore di quelli su cui si riteneva possibile costruire identità nazionale e di classe.

 

Una festa del Vespro contro il popolo del Vespro

Il punto di partenza di tale riconversione in chiave nazionale e borghese coincise con le celebrazioni del VI centenario del Vespro nel 1882, ventidue anni dopo lo sbarco di Garibaldi e la formazione dello Stato unitario. L’idea di enfatizzare nazionalisticamente il Vespro fu del sindaco di Palermo, Emanuele Notarbartolo, che nel 1875 lanciava il seguente appello: «Il 31 marzo 1882 si compie il VI centenario del Vespro […] uno dei più grandi eventi nazionali che vanti l’Italia del Medioevo. Il suo secolare ricordo può e deve dunque assumere il carattere di una solennità nazionale nella patria rigenerata e libera».

L’invito di Notarbartolo fu accolto favorevolmente, in particolare dalla sinistra di Francesco Crispi. Contrari erano, invece, gli autonomisti di Giovanni Raffaele, che spingevano affinché la festa mantenesse l’originario carattere siciliano. Crispi mise su un Comitato Promotore, di cui fu direttore, che si assunse l’incarico di risemantizzare il Vespro in chiave nazionale, in questo modo evitando che le celebrazioni per il VI centenario riaccendessero nei siciliani lo spirito anti-italiano, da poco manifestatosi nella “Rivolta del Sette e Mezzo” (1866). A questo proposito scrive il marchese Torrearsa, figura di spicco durante i moti del ’48 e fautore dell’Unità d’Italia: «La Sicilia, celebrando il Vespro, non ricorda stragi a furia di popolo, né rinfocola viete e dimenticate antipatie; il solenne storico avvenimento […] ricorda che le parti si fondono solo nel tutto d’una nazione. Viva l’Italia».

La lettura che si cerca di accreditare doveva poter dimostrare «lo spirito latente di nazionalità italica» del popolo siciliano. In altre parole, si cercava di far coincidere le aspirazioni della rivoluzione siciliana del 1282 con quelle dell’impresa garibaldina. Con questi intenti il Comitato Promotore di Crispi emanò un comunicato dove si legge: «La Sicilia festeggerà con calma le due gloriose date della sua storia: il 1282 e il 1860». Il Vespro cessava come rivoluzione popolare e indipendentista, e si riduceva a un “complotto” ordito dagli ordini sociali superiori della società (i soliti baroni!). Insomma, riprendeva vigore la tesi del filo-angioino Villani.

 

Il trasporto in corteo delle ceneri di un eroe garibaldino

Le celebrazioni del VI Centenario si prolungarono dal 31 marzo al 4 aprile. Momento cruciale fu il trasporto in corteo delle ceneri di un eroe garibaldino, Giacinto Carini. Giunte da Roma, furono sistemate al cimitero dei Cappuccini. Gli onori a un garibaldino furono un chiaro segnale dello snaturamento del Vespro, una deformazione della storia. La commemorazione di Carini fa il paio con l’invito fatto da Crispi a Garibaldi perché prendesse parte alle celebrazioni del Centenario. Sebbene già vecchio e in cattiva salute, Garibaldi accettò l’invito.

La sua presenza a Palermo simboleggiava l’unione di due episodi storici tra loro differenti, se non antitetici. Alla presenza di Garibaldi, furono poste due lapidi: una nella chiesa di Santo Spirito che si apre con un significativo «in nome dell’italica indipendenza»; la seconda, all’interno della Martorana, porta scritto che il Vespro costituì «un presidio di resistenza a difesa della monarchia nazionale». Nell’occasione la casa editrice Treves di Milano pubblicò un volume curato da Crispi, Giovan Battista Basile e Giuseppe Patricolo. Ricordando le date del 1282 e del 1860, i curatori scrivevano: «Le due ricordanze, nonché ripugnare, s’accordano armoniose». L’opera di risemantizzazione prese slancio da quelle cinque giornate di festeggiamenti.

La sinistra radicale di Mario Rapisardi e Giovanni Bovio, si oppose decisamente ai tentativi di “italianizzazione” del Vespro, di cui ripropose la lettura popolare e repubblicana, enfatizzando la concezione del “modello comunale”. Bovio scrive: «Salutiamo il VI Centenario del Vespro, non mossi da sentimento di vendetta, ma dal voto, che si vien tramutando in diritto, di vedere rispettata l’indipendenza e nella nazione indipendente il libero Comune». I radicali disertarono i festeggiamenti. Tra questi radicali si ricordano il medico Salomone Marino, autore di un’opera in versi che esaltava la forza del popolo del Vespro, e l’antropologo Giuseppe Pitrè autore de Il Vespro Siciliano Nelle Tradizioni Popolari, una raccolta di leggende, canti e proverbi sulla Sicilia del Vespro. Entrambi i volumi apparvero proprio nel 1882. Come si legge nella premessa al volume di Pitrè la vera storia del Vespro è da considerarsi una «tradizione univoca e inequivocabile, comprovata da documenti storici»; e aggiungeva che «la repentina, spontanea, sollevazione del popolo ferocemente oppresso non può mettersi in dubbio».

 

Una rilettura che ha finito col prevalere

Le celebrazioni del VI Centenario hanno dato l’avvio a una rilettura che ha finito col prevalere, in primo luogo tra gli intellettuali di regime, i politici, gli artisti, e che ancora oggi appare come la lettura prevalente. La loro influenza è devastante, come si deduce dai toni marcatamente anti-siciliani e anti-popolari di Benedetto Croce. Nella sua Storia del Regno di Napoli (1925), infatti, sostiene che la gente di Sicilia «svolgersi a popolo non seppe e non poté, e cadde preda ad un brutale baronaggio, e da allora rimase quasi staccata dalla generale cultura italiana e di questo distacco porta ancora le tracce nella sua persistente vita provinciale o provincialesca». Croce, ispirandosi a un esaltato liberalismo sciovinista, attaccava duramente il concetto di indipendenza “regionale”. Le sue posizioni furono, e ancora sono, condivise da molti storici: tra tutti si ricorda Ernesto Pontieri che in Il Tramonto del Baronaggio (1943) lanciava un duro attacco al concetto di “sicilianità”. Rosario Romeo, che in Il Risorgimento in Sicilia (1950), si scagliava contro il movimento indipendentista particolarmente agguerrito nella Sicilia del dopoguerra.

Perfino il film Vespro siciliano del regista Giorgio Pastina, condivise le tesi del Centenario. Il suo film apparve nel 1949, un momento storico particolarmente delicato quando, cacciati i tedeschi, si tornava a manifestare l’urgenza di rafforzare la mitologia di un’Italia unita contro l’oppressore straniero.

 

Riprendere in mano questa storia

Dal 1882 ad oggi il Vespro è stato fortemente sfigurato: il suo carattere rivoluzionario è stato sostituito da uno complottistico. Nei testi storici ancora oggi in circolazione i pennivendoli di regime cercano di dimostrare che la tirannia angioina cadde per volontà dei baroni, i quali invece tramarono per sostituirla con la “dominazione illuminata” degli aragonesi. Costoro cercano di cancellare le tracce che dimostrano che il Vespro fu un movimento di liberazione popolare, che non solo ruppe l’ordine costituito e si liberò della sottomissione ai potenti, ma diede vita (breve ma smagliante) a nuovi istituti comunitari.

A voi che siete giovani e studiosi, che insorgete contro lo stato di cose presente, il compito di riprendere in mano questa storia, depurarla da ogni falsificazione, riscattarne la lezione e tornare a gridare il sempre eloquente proverbio Nun lu sintiti lu Vespiru ca sona?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *